BLIND MELON: il volto psichedelico, malinconico e più dolce del grunge
22 settembre 2025 alle ore 12:54, agg. alle 13:54
Nel 1992 i BLIND MELON fondono psichedelia anni ’60, blues acustico con grunge e funk. Con “No Rain” regalano un inno malinconico a una generazione inquieta.
Pubblicato il 22 settembre 1992, BLIND MELON è uno dei debutti più originali e sorprendenti della stagione grunge. Un album che, invece di rifugiarsi nei toni cupi e nel linguaggio punk dei Nirvana e dei loro contemporanei, riscopre la psichedelia anni ’60, l’anima acustica e blues dei Rolling Stones e un portamento funk che lo allinea al panorama alternative rock più vivace di quegli anni.
Un disco centrale e irripetibile, reso immortale dal singolo “No Rain” e dalla voce luminosa e fragile di Shannon Hoon, la cui parabola drammatica segnerà il destino della band. In questo articolo lo ripercorriamo insieme, guidando l’ascolto traccia dopo traccia, per scoprire la visione e la magia di un album che resta un unicum nella storia del grunge.
Psichedelia, blues acustico e funk
Siamo nel 1992. I BLIND MELON sono una giovane band formatasi a Los Angeles nel 1990 che voleva scollarsi completamente dal sound iper-prodotto e tecnologico del rock anni ’80 e — assecondando quanto stava accadendo nel grunge — ritrovare la purezza perduta del rock classico degli anni ’60 e ’70. Rispetto ad altre band del periodo che avevano attinto moltissimo dal punk, Nirvana in testa, i BLIND MELON offrirono una ricetta alternativa: ispirazione dalla psichedelia, dagli intrecci chitarristici hendrixiani e dall’anima acustica e blues dei Rolling Stones. Il tratto di modernità era il portamento funk che attraversa e sostiene molte loro canzoni, allora originalissimo, in un periodo in cui il crossover tra rock, hard rock e funk stava producendo esperimenti entusiasmanti, dai Jane’s Addiction ai Red Hot Chili Peppers. Così, anche se BLIND MELON passa alla storia soprattutto per l’omonimo singolo “No Rain” — gioiello di estetica grunge malinconica e inquieta, ma al tempo stesso dolce e solare — l’album è una fusione sorprendente di stili, arrangiamenti complessi e dinamiche imprevedibili, impreziosito dalla voce meravigliosa, eclettica e ispirata di Shannon Hoon.
Produzione Vintage
BLIND MELLON venne prodotto da Rick Parashar, autentica divinità del grunge che - allora nemmeno ventenne - era già artefice di TEN (1991) dei Pearl Jam, DIRT (1992) degli Alice In Chains e TEMPLE OF THE DOG (1991) — l’album venne registrato ai London Bridge Studios di Seattle nella primavera del 1992. Parashar assecondò la ricerca di un suono vintage portando la band a utilizzare amplificatori vecchi e strumentazione antiquata: microfoni, registratori, effetti. Niente artifici moderni: i BLIND MELON volevano un suono puro e intimo. Non servivano le distorsioni esasperate del metal o gli effetti della new wave. Hoon spiegò: «A tutti noi piaceva la produzione di molti vecchi dischi degli Stones, dove qualunque cosa tu suoni deve arrivare all’ascoltatore identica, senza filtri». Anche il missaggio segue questa logica: la chitarra elettrica e solistica di Rogers Stevens è nel canale destro, quella acustica, ritmica ed esotica di Chris Thorn nel sinistro. Un ascolto in cuffia è pura goduria.
Traccia dopo traccia
BLIND MELON è uno di quei grandi dischi di rock che riesci a cogliere davvero solo ascoltandolo dall’inizio alla fine, seguendo il filo rosso che lega canzoni anche profondamente diverse tra loro. Proviamo ad ascoltarlo assieme. Quando appoggiamo la puntina sul vinile, ad accoglierci c’è “Soak The Sin”, il lato più rock e aggressivo dei Blind Melon. Distorto, moderno, richiama da vicino i Pearl Jam di TEN, non a caso prodotto dallo stesso Parashar. “Tones Of Home” vibra di pulsazione funk: la stessa che animava tante rock band del periodo, dai Red Hot Chili Peppers ai Jane’s Addiction. “Paper Scratcher” è la prima gemma: un delizioso alternarsi tra strofe distorte e aggressive e aperture melodiche nei ritornelli, oniriche e dolcissime, quasi beat. Le chitarre si rincorrono tra squarci saturi e mordaci e fraseggi puliti e avvolgenti, evocando a tratti Hendrix. Con “I Wonder” i Blind Melon mostrano finalmente la loro anima più autentica: parte intima, acustica, quasi fragile, e poi si apre in un arrangiamento che pulsa di rock vellutato e psichedelico. È proprio qui che la band è magnificamente grunge, perché richiama i grandi stilemi del rock anni ’70 ma li reinterpreta con il linguaggio fresco e alternativo di quegli anni. “Dear Ol’ Dad” riporta la band su un versante più elettrico e abrasivo: una giungla di chitarre che si arrampicano tra riff quasi progressive e improvvise svisate psichedeliche. E poi arriva lei, “No Rain”, il capolavoro del disco. Un pezzo che riesce a conciliare malinconia e solarità, anima acustica e impennate elettriche di chitarra jingle-jangle. È autentico rock lisergico che riaccende nella pronuncia allora freschissima di questa band la magia del rock degli anni ’60. Così, se nel vigore vintage funk, rock e alternative degli altri pezzi del disco i Blind Melon paiono perfettamente incastonati nella stessa estetica grunge dei Pearl Jam, qui sfoggiano quell’anima acustica che li renderà unici in quella scena, consegnando un classico alla storia del rock. “No Rain” è anche un manifesto di scontentezza, indolenza, malinconia ostentata nella nuova generazione grunge, che reagiva all’euforia immotivata e frivola di tanto rock anni ’80. Era una sorta di ode a starsene a letto a non fare nulla, lamentandosi persino del fatto che non piova, perché le giornate troppo luminose di sole facevano sentire più in colpa per non alzarsi. Il bassista Brad Smith scrisse la maggior parte del pezzo e raccontò: «La canzone parla dell’incapacità di alzarsi dal letto e trovare scuse per affrontare la giornata». All’epoca frequentava una ragazza depressa che dormiva durante le giornate di sole e si lamentava quando non pioveva. Più tardi ammise però che, anche se l’ispirazione arrivava da quella relazione, si stava raccontando anche lui stesso. Con “Sleepyhouse” si torna a respirare l’anima psichedelica e anni ’60 della band. Negli splendidi intrecci chitarristici di Rogers Stevens e Christopher Thorn affiora l’eco di Hendrix, ma ci sono anche inserti strumentali vicini alla musica indiana e un finale con sitar che richiamano le contaminazioni beatlesiane di George Harrison. Su tutto, una delle prove vocali più ispirate di Hoon. “Seed To A Tree” è una delle parentesi più dure e groove del disco: chitarre distorte, batteria incalzante e un Hoon particolarmente aggressivo. Qui sembra quasi che i Blind Melon facciano il verso agli amici Guns N’ Roses, firmando una rilettura grunge e psichedelica del suono di APPETITE FOR DESTRUCTION (1987). Il viaggio si chiude con “Drive”, che torna a evocare la tradizione acustica dei Rolling Stones intrecciata alle melodie blues e al tocco hendrixiano. Un brano elegante e intenso, uno dei capolavori nascosti del disco, che sancisce la vera identità dei BLIND MELON: una band che guardava agli anni ’60 e ’70 con amore, ma che sapeva anche parlare la lingua del presente con assoluta originalità.
La storia triste di Shannon Hoon
La storia dei Blind Melon si intreccia inevitabilmente con quella drammatica del cantante Shannon Hoon, voce e volto della band. Nato a Lafayette, Indiana, trovò la prima porta verso il successo grazie all’amicizia con Axl Rose, compaesano e amico di sua sorella. Con i Guns N’ Roses entrò in studio durante le sessioni di USE YOUR ILLUSION I e II, cantò nei cori di “The Garden” e “Don’t Cry” e comparve nel video del brano. Con l’uscita di BLIND MELON nel 1992 e il successo travolgente di “No Rain”, la band si ritrovò improvvisamente al centro della scena, in tour con Soundgarden, Guns N’ Roses e Ozzy Osbourne. Ma il carattere fragile e imprevedibile di Hoon emerse presto: nel 1993 fu arrestato a Vancouver dopo essersi spogliato sul palco e aver — addirittura — urinato su un fan; l’anno dopo, a Woodstock ’94, si presentò indossando un abito della fidanzata, apparentemente sotto LSD. Nel 1995 la band pubblicò SOUP, mentre Hoon diventava padre di una bambina. Ma le dipendenze non lo abbandonarono: entrò più volte in riabilitazione, senza riuscire a trovare equilibrio. Il 21 ottobre 1995, a New Orleans, Hoon fu trovato senza vita sul tour bus, stroncato da un’overdose di cocaina. Aveva solo 28 anni. Con la sua morte, i Blind Melon persero non solo un frontman, ma la loro stessa identità. La voce di Shannon Hoon, capace di unire fragilità e potenza, resta oggi il simbolo di un talento luminoso e tormentato, consumato troppo in fretta come molti altri nel mito maledetto del grunge.