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Springsteen, Dylan, Pink Floyd e il mercato dei cofanetti

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Author image Doctor Mann

18 settembre 2025 alle ore 12:17, agg. alle 12:49

Bruce Springsteen, Pink Floyd e Bob Dylan sono solo alcuni dei grandi nomi protagonisti del mercato dei cofanetti, tra marketing e rivelazioni

Un cantiere aperto. Con gli archeologi del rock lì dentro, impegnati a riscrivere il percorso creativo degli artisti più amati. Il filone dei “box”, i cofanetti celebrativi di album leggendari o illustrativi di periodi cruciali delle star, non è solo un’oculata strategia di marketing da parte delle case discografiche o dei detentori dei diritti sui cataloghi: è uno scavo, a volte esaltante - e sempre chiarificatore - sul processo di scelta con cui un musicista assembla il repertorio.

I brani originariamente esclusi dalla pubblicazione, riportati alla luce decenni dopo, completano il ritratto psicologico dell’autore.

Un buon affare, a costi di produzione contenuti, e un assist ineludibile per gli studiosi. Il caso più clamoroso è quello di Bruce Springsteen, che soprattutto negli anni Settanta e Ottanta aveva costretto i fans a svenarsi dietro acquisto di registrazioni pirata – dalla qualità spesso precaria – in cui trovare l’outtake scartato o l’inedito proposto in concerto.

L’atteggiamento auto-punitivo di Bruce sin dai tempi di “Born to run”, la sua ostinazione nell’escludere dalla track-list definitiva perle che non rientravano nella sequenza narrativa e nel mood dell’opera, aveva innescato la frustrazione di quanti “sapevano” che l’archivio fosse pieno di meraviglie impossibili da liquidare come scarti.

Solo negli anni della senilità, per un ripensamento condiviso con i suoi editori, Springsteen ha consentito che gli ammiratori potessero valutare questa messe di tesori rimasti nell’ombra.


La nuova vita di Nebraska

E dopo i 7 album di “Tracks II” (e prima che l’annunciato “Tracks III” certifichi lo svuotamento dei magazzini), il 17 ottobre arriverà “Nebraska ‘82”: un quadruplo incentrato sul capitolo del disco acustico che - letteralmente - salvò la vita del rocker del New Jersey, allora afflitto da una grave depressione, lanciandolo verso la fama globale grazie al successivo “Born in the USA”.

E qui, tra le pieghe delle informali session di “Nebraska” (oggi legato all’uscita del biopic “Liberami dal nulla” con protagonista Jeremy Allen White) troviamo già quello che poi venne percepito come un inno patriottardo americano, in realtà la dolente presa d’atto dell’emarginazione dei veterani del Vietnam: eccola, la doppia elaborazione provvisoria di “Born in the Usa”, la prima scarna e vertiginosamente blues, l’altra innervata dal rock con il supporto di parte della E Street Band.

Il box di “Nebraska” conferma così anche l’esistenza della versione elettrica per molti brani di quel long-playing.

Se ne era favoleggiato per decenni: forse per un processo di rimozione lo stesso Bruce sosteneva di non ricordarne l’esistenza. Dunque, grazie ai cofanetti, il lavoro di aggiornamento della discografia springsteeniana può essere ridefinito dagli osservatori nel segno di una più complessa fertilità dell’artista.



Bob Dylan e gli altri

Così come preziosa si rivelerà la valutazione del Volume 18 delle “Bootleg series” di Bob Dylan: a dispetto della denominazione della serie, si tratta di prodotti ufficiali, di frammenti paralleli nella carriera del gigante di Duluth: qui, negli 8 cd di “Through the open window 1956-1963”, dal 31 ottobre seguiremo il giovanissimo folksinger nel suo apprendistato prima e durante la stagione cruciale del Greenwich Village: abbozzi di pietre miliari come “Blowin’ in the wind” o “The times they are a-changin’”, ma anche traditional, standard, incisioni live in club e coffeehouses e il decisivo concerto dalla Carnegie Hall del 26 ottobre ’63: un altro tassello per la chiarificazione del percorso che portò il cantautore del Minnesota fino al Nobel.

Ancora, pregevole è il box-compilation “Joni’s Jazz” (4 cd o 8 lp), curato dalla stessa Mitchell, che rispolvera quel segmento operativo, magnificamente trasversale, degli album dal ’75 al ’79 in cui si inoltrò, da discepola, nel sentiero dove gli dei del jazz le tendevano la mano per forgiare manufatti di inestimabile valore. Joni Mitchell usciva dalla sua comfort zone melodico-pop per arrampicarsi sulle scale impervie di Charlie Mingus, Wayne Shorter, Gerry Mulligan, Herbie Hancock, Pat Metheny, Larry Carlton, Jaco Pastorius.

Imprese in cordata per puntare più in alto, azzardando il passo con felice incoscienza. Il cofanetto di Joni è allestito nel segno della rimasterizzazione più che nel ripescaggio (come invece era per Springsteen e Dylan) di cose lasciate nella cassapanca.

Ma una “scatola” rivelatrice non si nega a nessuno dei grandi, con l’occasione di un anniversario o di una riedizione: le major vanno sull’usato sicuro, le star in età matura placano il loro senso di colpa da implacabili selezionatori delle proprie vecchie opere.

Il 12 dicembre toccherà ai Pink Floyd di “Wish you were here 50” consentire allo svelamento di versioni alternative e demo inediti a compendio di quel capolavoro di mezzo secolo fa, incentrato sull’Assenza. E chissà se il vuoto lasciato dall’insanabile inimicizia tra Waters e Gilmour potrà essere sanato da qualche nastro polveroso, color nostalgia.


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