History

Sid Vicious, l’icona punk che non sapeva suonare

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Author image Gianni Rojatti

13 dicembre 2025 alle ore 22:10, agg. alle 12:22

Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols, è diventato un’icona del punk senza saper suonare. SID SINGS racconta caos, autodistruzione e il lato oscuro del mito

Il 15 dicembre del 1979 viene pubblicato SID SINGS, unico album solista di Sid Vicious, uscito postumo. Più che un vero disco, è un documento lo-fi che raccoglie registrazioni live caotiche e una celebre cover in studio di “My Way”.

Il disco diventa il punto di partenza per rileggere la figura di Sid Vicious: bassista simbolo del punk che non sapeva suonare, icona mediatica più che musicista, incarnazione estrema del lato oscuro e autodistruttivo del mito punk.

Un’icona senza musica

Nel dicembre del 1979 esce SID SINGS, l’unico album solista di Sid Vicious, pubblicato postumo. Più che un vero disco, è un documento simbolico, utile per rileggere una delle figure più paradossali e drammatiche della storia del rock. Sid Vicious è infatti uno dei bassisti più riconoscibili dell’immaginario punk, un’icona assoluta, pur essendo un musicista che il basso non lo sapeva suonare quasi per niente. Ed è proprio questo corto circuito a raccontare molto non solo di lui, ma dell’intera parabola dei Sex Pistols. Sid entra nei Pistols quando la band ha già raggiunto una certa notorietà e non viene scelto per ragioni musicali. Arriva dopo l’uscita di Glenn Matlock, il bassista della formazione originale, ed è soprattutto un grande amico di Johnny Rotten. Ma, più di tutto, è la scelta perfetta dal punto di vista dell’immagine. I Sex Pistols sono infatti una creatura profondamente legata alla visione di Malcolm McLaren, manager e provocatore culturale, e di Vivienne Westwood, stilista destinata a segnare per decenni la storia della moda. Il loro negozio, la loro estetica e il loro linguaggio visivo sono centrali quanto la musica. Non è un caso che i Sex Pistols vengano spesso descritti come una band “costruita a tavolino”: ragazzi giovanissimi, magrissimi, bellissimi, con un’estetica sporca, tormentata, violenta, perfettamente allineata con l’immaginario di fine anni Settanta. Per alcuni, il gruppo è stato persino una gigantesca operazione promozionale per vendere uno stile, dei vestiti, un’attitudine. Dentro questo contesto, Sid Vicious ha il physique du rôle ideale: alto, scheletrico, sguardo perso, presenza disturbante. L’idea è che avrebbe imparato a suonare il basso strada facendo. In realtà, con la musica non combina mai nulla.


Musica, caos e autodistruzione

Ed è qui che emerge il vero paradosso. Perché, al contrario di quanto si racconta superficialmente, i Sex Pistols prima di Sid sono una band rock pregevole. La formazione originale con Steve Jones alla chitarra, Paul Cook alla batteria, Glenn Matlock al basso e Johnny Rotten alla voce non è composta da virtuosi o tecnici, ma da musicisti veri, con una pronuncia sonora e linguistica completamente nuova. Inventano un rock compatto, abrasivo, cattivo, con un linguaggio che nessuno aveva avuto prima e che diventerà la matrice di moltissimo rock successivo: dal punk pop di Green Day, Blink-182 e Sum 41, fino all’impronta più ruvida che si ritrova nei Nirvana, nei Foo Fighters, negli Oasis e persino nei Metallica. I bootleg dei Pistols con Matlock mostrano una band solida, feroce, musicale. Con l’arrivo di Sid, invece, la musica passa in secondo piano e la band diventa puro caos. Sid non aggiunge nulla sul piano sonoro, ma diventa il catalizzatore perfetto dello scandalo. Ancora adolescente, viene travolto da un’attenzione mediatica enorme, che lo spinge a esasperare ogni comportamento: ferite auto-inflitte sul palco fino a presentarsi coperto di sangue, risse con il pubblico, episodi grotteschi e degradanti. La stampa gongola, il mito cresce e lui, giovanissimo, si galvanizza, spingendosi sempre oltre. La relazione tossica con la groupie Nancy Spungen accelera una caduta già scritta, in una storia di miseria e disperazione che resta una delle più tristi del rock. Una vicenda raccontata con grande efficacia nel film SID AND NANCY di Alex Cox (1986), con un giovanissimo Gary Oldman, che restituisce tutta la dimensione tragica di un ragazzo trasformato in icona e lasciato bruciare. Sid Vicious diventa così la personificazione estrema di quella perversione del rock che si innamora degli eroi maledetti, anche quando dietro l’immagine non c’è la musica.


Il disco che racconta la sconfitta

A questo punto sarebbe bello poter dire che l’eredità musicale di Sid Vicious coincida con NEVER MIND THE BOLLOCKS (1977), il capolavoro dei Sex Pistols. Ma anche qui la realtà è più amara. Sid, su quel disco, praticamente non c’è. Il basso è quasi interamente suonato da Steve Jones e la presenza di Vicious si riduce forse a una traccia – probabilmente “Holidays in the Sun”, che contribuisce a scrivere, o “Belsen Was a Gas”. Per il resto, di musicale resta pochissimo. Ascoltando i bootleg dal vivo, il quadro non migliora: Sid appare spesso confuso, dissociato, incostante. Eppure, a tratti, succede qualcosa. Nei rari momenti di lucidità, il suo bassismo primitivo e violento si incastra con la batteria di Paul Cook e la chitarra di Steve Jones in modo feroce, quasi satanico. In quei frangenti, i Sex Pistols diventano una macchina fuori controllo, “come due treni che si schiantano uno contro l’altro nel fango, tra il fragore dei vetri rotti e le urla della gente”, per usare la celebre definizione di Rolling Stone. La differenza con Glenn Matlock è netta: Matlock ha un approccio più colto, debitore del rock’n’roll classico e dei Beatles. Sid, invece, suona in modo primordiale, spesso raddoppiando la chitarra con linee serrate e brutali. Ed è proprio questa rozzezza che, quando funziona, rende la band mostruosa. L’unica vera testimonianza musicale lasciata da Sid Vicious si trova in poche tracce sparse su THE GREAT ROCK’N’ROLL SWINDLE (colonna sonora dell’omonimo film/documentario di Julian Temple sull'epopea Sex Pistols) e soprattutto in SID SINGS, disco live/bootleg che raccoglie cover e performance sgangherate. Un’eredità minima, frammentaria, coerente con una storia più iconografica che artistica. SID SINGS assomiglia più a un reperto che a un disco vero e proprio. Registrazioni rubate, lo-fi, spesso caotiche, catturate al Max’s Kansas City di New York, con l’unica eccezione di “My Way”, incisa in studio a Parigi. Non c’è un progetto, non c’è una visione: c’è solo il tentativo di fissare su nastro ciò che resta di Sid Vicious quando la musica è ormai un dettaglio marginale. “My Way” diventa il cuore simbolico del disco. Il classico reso immortale da Frank Sinatra viene trasformato in una caricatura disturbante: irriverente, sguaiata, dissacrante, un inno all’autodistruzione e al nichilismo. Punk non per sovversione creativa, ma per l’affondo deliberato nel brutto, nell’orrido, nello schifo come gesto di provocazione gratuita. Il resto del disco è una sequenza di cover che attingono agli eroi del proto-punk e del punk: New York Dolls, Johnny Thunders, Iggy Pop, Ramones. Omaggi stanchi, suonati senza reale convinzione. Le testimonianze delle registrazioni parlano di ubriachezza, disinteresse, musicisti che suonano con una corda rotta pur di chiudere in fretta. Non c’è passione per il rock, non c’è urgenza espressiva. Resta il carisma, enorme. Resta la capacità di bucare lo schermo. Ma SID SINGS, più che un’eredità musicale, è la colonna sonora di una sconfitta umana. Per chi come me continua a vedere nel punk una forza liberatoria e salvifica per il rock – capace di rimettere al centro l’urgenza della canzone, l’energia collettiva, l’idea prima del tecnicismo – SID SING rappresenta il lato oscuro di quella rivoluzione. Una pagina da ricordare non per celebrarla, ma per non confonderla mai con il senso profondo e vitale del punk stesso.


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