History

Sam Fender: fragilità dell’adolescenza, una chitarra economica, Slash e il faro di Springsteen

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Author image Gianni Rojatti

24 novembre 2025 alle ore 13:36, agg. alle 15:09

Tra fragilità adolescenziali, una chitarra economica e i dischi di Slash, Jeff Buckley e il Boss, Sam Fender ha costruito una delle voci rock più vere di oggi

Scopriamo le origini di Sam Fender: un’adolescenza in cui la musica diventa rifugio, bussola emotiva, modo per dare un senso alle fragilità, alle prime delusioni, ai primi amori. Ma anche un pretesto per ridere, suonare e cazzeggiare con le prime band, quando una chitarra in mano aiuta a crescere più in fretta.

A questa storia così umana si aggiunge un ingrediente unico: essere figlio di un musicista e crescere immerso in ascolti eclettici, dagli Oasis agli Steely Dan, dalle schitarrate di Slash alla scrittura narrativa di Bruce Springsteen e Tracy Chapman. Una ricetta che ha generato una delle voci rock più personali della scena attuale.

L'adolescente con la chitarra economica

Le origini di Sam Fender conservano davvero quella dimensione quasi fiabesca che accompagna molte storie rock: un adolescente che affronta il divorzio dei genitori, una TV regalata dalla madre quasi per riempire un vuoto improvviso e, dall’altra parte, una chitarra elettrica donata dal padre, musicista e ottimo chitarrista ritmico. La chitarra è una Stratocaster, il modello più diffuso al mondo, solo che — purtroppo — ne è una copia economica di un brand non così noto, Peavey. Abbinata a un piccolo e scassato amplificatore, è una strumentazione modesta, semplice, ma capace di diventare un ponte emotivo tra padre e figlio e di aggiungere un tratto romantico al racconto, visto che Sam Fender dichiarerà di utilizzare quella chitarra ancora oggi, di tanto in tanto, nonostante riempia gli stadi. (C’è un dettaglio che può strappare un sorriso: Tom Morello raccontò di essersi vergognato - già rockstar con i Rage Against the Machine e Audioslave - di continuare portare sul palco e in studio una cassa per chitarra di un brand più economico, tanto da coprirne di proposito il nome. E il brand era di nuovo Peavey!) Il padre ha un ruolo decisivo nella formazione di Sam Fender. Non gli mette solo in mano una chitarra: gli insegna a suonarla, lo immerge nell’ascolto di dischi importanti e allo stesso tempo gli dà le basi per diventare un musicista completo, uno che non solo sa strimpellare ma sa anche prendersi cura del proprio strumento, capirlo, regolarlo, renderlo suonabile. È un imprinting prezioso, quasi un anticipo di professionalità. A tutto questo, il padre aggiunge quello che poi diventerà l’ingrediente segreto nella formazione di Sam: in casa Fender un ascolto ricorrente sono gli Steely Dan, una band che ha costruito la propria identità su una miscela unica di rock e raffinatezza armonica jazz. Quelle armonie più complesse, quegli accordi sofisticati, quella ricerca melodica elegante entrano nel suo mondo quasi senza che se ne accorga. E gli lasciano addosso una sensibilità inconsueta per un ragazzino che sta imparando tre accordi alla volta: la percezione che una canzone possa essere semplice e profonda allo stesso tempo, immediata ma armonicamente ricercata. Parte un percorso che, all’inizio, sembra quasi prevedibile: armato di quella Stratocaster scalcinata, Sam macina i dischi di Nirvana, Green Day, Oasis, linguaggi immediati, costruiti su accordi semplici e linee melodiche dirette che lui impara a cantare e suonare. Fin qui tutto quadra. Ma poi arriva la parte sorprendente, perché nello stesso periodo Sam Fender è anche un piccolo maniaco della chitarra: studia i Led Zeppelin ed è un adolescente che, dopo aver letto l’autobiografia di Slash, si mette a imparare tutti gli assoli pirotecnici di APPETITE FOR DESTRUCTION (1987) dei Guns N' Roses. Questa doppia anima — il songwriter istintivo e il chitarrista smanettone — diventa il vero motore della sua crescita. Perché allo stesso tempo il padre lo spinge a prendere lezioni serie: scale blues, scale maggiori, arpeggi. E se da ragazzino gli sembrano esercizi noiosi e lontani dal rock che ama, Fender si accorgerà anni dopo che proprio quella parte più tecnica è “il muscolo invisibile” che lo sostiene. È la forza che non vedi ma che ti ritrovi addosso nel momento in cui provi a scrivere qualcosa di più complesso. 


Scrivere canzoni

Se la formazione strumentale di Sam Fender nasce da una combinazione di fragilità dovuta alla crisi familiare, tecnica e furia adolescenziale, quella come autore di testi segue un percorso altrettanto suggestivo. Tutto parte dalla sua prima band, un trio rock di adolescenti: tutto parte da un divano, una chitarra e quelle canzoni comiche e sciocche che scriveva per far ridere gli amici, ispirato dai Tenacious D. Sembrano un gioco, ma intanto lo educano a una routine di pratica imprescindibile: l’abitudine a sedersi con la chitarra in mano, a mettere insieme accordi e parole, a trasformare un’idea in una canzone. Poi, con l’adolescenza che avanza, arrivano le prime cotte, le prime delusioni, i primi tormenti. “Quando ho iniziato a essere afflitto e con il cuore spezzato per le ragazze, è allora che sono iniziate le vere canzoni,” racconta. All’inizio, dice lui stesso, “facevano schifo”, ma diventano una forma embrionale di palestra artistica. Anche perché le ragazze non sono l’unico dolore che rattrista il giovane Sam: la mamma si trasferisce, lascia definitivamente casa e gli equilibri familiari cambiano. Fender si rifugia nella scrittura per dare ordine a questo disordine domestico ed emotivo. Quella routine – chitarra, voce, divano – diventa anche terapia e, arricchita dall’autenticità e profondità delle storie che racconta, inizia a trasformarsi in un linguaggio musicale artistico vero, autorevole. Nel frattempo, sempre grazie al padre e al fratello, gli esempi a cui guardare per affinare il suo songwriting non mancano. Joni Mitchell, Adam Granduciel dei War On Drugs, Jeff Buckley: quest’ultimo, in particolare, gli arriva proprio grazie al fratello, che gli mette in mano GRACE del 1994, album da cui Fender assorbe non solo alcune inflessioni vocali, ma anche un’idea di scrittura intensa e trasparente e un ruolo protagonista della chitarra ritmica che, senza schiacciare mai i piedi alle parti vocali, si muove su soluzioni ritmiche e armoniche tutt’altro che banali e immediate.


Il faro del Boss

Ma tra le influenze che segnano più in profondità la sua identità c’è soprattutto Bruce Springsteen. BORN TO RUN (1975) è un vinile che gli cambia la vita, e l’eredità springsteeniana è evidente su più piani. Su quello sonoro, Fender fa diventare — come per il Boss — un trademark della sua musica quel sassofono melodico e struggente, così come il pianoforte tintinnante o il glockenspiel: strumenti che portano calore e dolcezza agli arrangiamenti. Ma il patrimonio più importante di Springsteen è la scrittura: uno sguardo da romanzo, fatto di dettagli concreti, scene reali, luoghi che vivono attraverso chi li abita. Lo si ritrova in brani come "Dying Light" (SEVENTEEN GOING UNDER, 2021), dove dipinge la sua città con precisione cinematografica: 
“Questa città è un mondo di derelitti e randagi, giganti comici, eroi senza un soldo / Uomini morti al bar, ho bevuto con tutti loro.”  Fender è attratto da quel tipo di scrittura che descrive senza spiegare, che ti porta dentro una scena con un solo verso. Non a caso cita tra i suoi passaggi preferiti l’immagine di "Jungleland" (BORN TO RUN), una delle canzoni più iconiche del Boss:
 “Una ragazza scalza seduta sul cofano di una Dodge beve birra tiepida nella morbida pioggia estiva.” Per lui questa è la chiave della grande canzone narrativa: una cosa che oggi Fender denuncia come sempre più rara nella musica pop. Fa esempi precisi: "Luka" di Suzanne Vega, "Fast Car" di Tracy Chapman. Brani costruiti su storie, ambienti, persone. Rispetto al panorama pop contemporaneo, dominato da ballate che si limitano a dinamiche sentimentali elementari, Fender rivendica la scelta di raccontare la verità dei luoghi e delle persone. È questo, dice, che lo distingue: il bisogno di scrivere storie, non solo emozioni. Nel suo processo creativo, Fender impara ad alternare approcci diversi: a volte scrive prima il testo, altre volte parte dalla musica, da una progressione di accordi o da una melodia, confessando poi che le canzoni nate dalla melodia tendono a diventare i pezzi più forti, quelli che diventeranno singoli. E ciò che gli fa capire di avere tra le mani una melodia efficace, spiega Fender, è quella dimensione quasi istintiva per cui la melodia “ti esce dall’anima”, come se fosse un canale diretto con qualcosa di più profondo.


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