History

Royel Otis: malinconia e synth pop con vista oceano

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Author image Gianni Rojatti

31 luglio 2025 alle ore 14:20, agg. alle 19:06

Dalla nostra TOP 20, con “Car” approfondiamo il sound dei Royel Otis: indie-pop solare e malinconico, tra new wave e sogno.

Il brano “Car”, presente nella nostra TOP 20, ci ha fatto venir voglia di approfondire il sound fresco, eclettico e malinconico dei Royel Otis. Un nome che circola sempre più spesso tra gli amanti dell’indie rock e pop. Il duo australiano, composto da Royel Maddell e Otis Pavlovic, nasce a Sydney nel 2019, ma la loro musica sembra uscita da una cartolina spedita da più parti del mondo: dalle spiagge bruciate dal sole della costa australiana ai pub piovosi e impregnati di rock di Londra.

Dopo una serie di EP promettenti, è con Pratts & Pain (2024) che i Royel Otis si impongono con forza nella scena internazionale. Un album nato da sessioni di scrittura al bancone di un pub, e sbocciato in brani che uniscono malinconia e leggerezza con una naturalezza disarmante. “Car” ne è un’eredità diretta, e allo stesso tempo un passo avanti: una canzone che fotografa con lucidità quel momento sospeso tra il non voler lasciare andare e il sapere che è ora di farlo. E lo fa con quel mix di suono asciutto, produzione curata e umore sognante che rende la band una delle realtà più interessanti dell’indie contemporaneo.

Contaminazioni eclettiche: dal surf al soul

Ciò che rende la loro musica davvero interessante è quel modo in cui riescono a tenere insieme contaminazioni così eclettiche: l’eredità new wave dei Cure e dei Joy Division si fonde con la freschezza del synth pop anni 2000, mentre sullo sfondo si intravede sempre quell’aria leggera e salmastra del surf rock, un’attitudine più che un vero e proprio genere. E poi c’è la voce di Otis, che arriva come se parlasse sottovoce, quasi distratta, ma in realtà carica di una malinconia che si incolla alle canzoni e ne diventa cifra. A completare il quadro c’è una formazione musicale insospettabilmente solida. Pavlovic cita spesso il soul classico tra le sue influenze: Stevie Wonder, Donny Hathaway, Aretha Franklin. Lo si sente nelle armonie vocali, nell’attenzione alla melodia, nella ricerca della tensione emotiva anche nei passaggi più pop. La stessa tensione che si ritrova in un sound costruito con cura artigianale: chitarre jangly che ricordano tanto gli Smiths quanto gli esordi degli Arctic Monkeys, synth che ondeggiano tra nostalgia e beat moderni, bassi profondi e batterie che alternano groove psichedelici a scatti da garage band. A volte, il punto di partenza è un semplice demo voce e chitarra, che poi prende corpo e si trasforma, ma sempre conservando quell’urgenza un po’ casalinga, da producer da cameretta con le idee chiare. Il loro immaginario si espande anche oltre la musica. Royel ha confessato di amare gli anime giapponesi, soprattutto per le sigle finali, e quella sensibilità visiva e poetica si riversa nei videoclip, nelle copertine, nelle atmosfere. È un mondo fatto di sfumature, di riferimenti colti e pop, ma anche di storie personali – come i Pixies ascoltati da Otis grazie al padre – e derive culturali che vanno dallo skate ai videogame. La loro versione di “Murder on the Dancefloor” di Sophie Ellis-Bextor – virale, ironica, perfettamente rielaborata – non è solo una cover ben riuscita: è un’ottima sintesi del loro approccio al rock. Quello di chi ha capito che la nostalgia può anche far sorridere, e che il pop può essere tanto leggero quanto profondo.


Disperatamente Cure

Con “Car”, i Royel Otis aggiungono un altro tassello alla loro visione sonora, con una ballata sospesa tra intimità e ritmo, sogno e concretezza. Si avverte da subito una forte componente dreamy ma senza mai perdere quella spinta ritmica che è ormai diventata il marchio di fabbrica del duo. La produzione è volutamente asciutta, con grande attenzione ai dettagli e zero concessioni alla sovrapproduzione. È un pezzo che lavora per sottrazione, ma senza mai sembrare incompleto. Le chitarre jangly fanno da fondamento, piene di riverbero e aperture luminose. Il basso, suonato con plettro, nella migliore tradizione new wave, La batteria, ostinata quasi da suonare come una drum machine, accompagna con una regolarità ottusa e precisa. I synth entrano appena, ma colorano, contaminano, addolciscono la matrice chitarristica del pezzo. Il brano è stato co-prodotto da Blake Slatkin (Omar Apollo, Wallows) e Omer Fedi (Lil Nas X, SZA), due nomi che testimoniano la crescita e l’ambizione del progetto, capace di muoversi con disinvoltura tra pop e indie di alta fascia. E poi c’è il finale: un crescendo più rock e “disperatamente Cure”, dove il tema petulante di synth e chitarra si arrampica su quel basso scuro e la batteria immobile, lasciando - nell’immancabile filo di malinconia - tutto sospeso, dolce e ballabile.


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