History

Perry Bamonte dei CURE: il musicista prima della chitarra

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Author image Gianni Rojatti

31 dicembre 2025 alle ore 16:47, agg. alle 17:14

Perry Bamonte dei The Cure: musicista silenzioso e romantico, che ha messo la chitarra al servizio delle canzoni. Un ricordo che passa anche da un disco chiave

La recente scomparsa di Perry Bamonte è l’occasione per ricordare un artista che ha sempre messo la musica prima dello strumento. Chitarrista solo in apparenza, Bamonte è stato soprattutto un musicista capace di scolpire atmosfere, identità sonore e arrangiamenti al servizio delle canzoni dei The Cure.

La sua storia ha anche un tratto profondamente romantico: dagli inizi come membro della crew e assistente di Robert Smith fino all’ingresso ufficiale nella band. Un percorso raro, che raccontiamo suggerendo non solo alcuni brani, ma anche un album da ascoltare per ricordarlo davvero.

Suonare Dark

Per comprendere fino in fondo il valore di un musicista come Perry Bamonte è necessario partire dallo scenario artistico e musicale in cui si è espresso. Un contesto che non premia l’esibizione tecnica né il protagonismo strumentale, ma la capacità di costruire identità sonore riconoscibili e coerenti. Essendo stato il chitarrista dei The Cure, è quindi doveroso chiarire quale sia la dimensione chitarristica del Dark: un linguaggio alternativo, anti-eroico e profondamente espressivo. Solo dentro questo perimetro è possibile leggere il suo contributo con la giusta messa a fuoco. Il Dark nasce come evoluzione naturale del Punk, ma ne ribalta il gesto. Se il Punk aveva reagito al rock degli anni Settanta con un’esplosione frontale, rabbiosa e semplificata, il Dark trasforma quella stessa frattura in un linguaggio più introspettivo, trattenuto, spesso claustrofobico. Musicalmente, è una presa di distanza netta dal blues, dal virtuosismo e dalla fisicità muscolare del rock tradizionale: la chitarra smette di essere protagonista e diventa strumento di atmosfera, colore e tensione emotiva. All’interno della new wave e del post-punk, il chitarrista Dark rifiuta l’assolo risolutivo e l’affermazione tecnica, privilegiando un lavoro più sottile: linee essenziali, arpeggi ipnotici, effetti di delay e chorus come estensioni espressive, un uso consapevole della ripetizione e dello spazio. È un approccio anti-blues e anti-rock nel senso più classico, ma non per questo povero o rinunciatario: al contrario, è una ricerca timbrica e identitaria precisa, che mette la chitarra al servizio del mood e della canzone. In questo scenario, reso emblematico dall’estetica sonora dei Cure, la chitarra diventa veicolo di inquietudine, malinconia e introspezione. Non cerca di imporsi, ma di scavare, contribuendo a definire un immaginario musicale immediatamente riconoscibile.


Stile & Suono

All’interno dell’universo dei Cure, Perry Bamonte rappresenta una declinazione esemplare di questo approccio: un musicista che costruisce identità sonore senza bisogno di esporsi in primo piano. Il suo stile è basato su intrecci, sovrapposizioni e dinamiche interne, con una chitarra che dialoga costantemente con tastiere e sezione ritmica, contribuendo a definire l’atmosfera più che a guidare la narrazione in senso tradizionale. Il suo percorso nella band è emblematico di questo ruolo. Dopo aver “accudito” i Cure come membro della crew tecnica tra il 1984 e il 1989, inizialmente come assistente di Robert Smith, Bamonte entra stabilmente nella formazione nel 1990, raccogliendo il testimone lasciato libero da Roger O’Donnell. Da quel momento diventa una presenza centrale ma discreta, suonando chitarra, basso a sei corde e tastiere in una fase cruciale della discografia del gruppo. Il suo contributo è presente su album come WISH (1992), WILD MOOD SWINGS (1996) e BLOODFLOWERS (2000), oltre che su ACOUSTIC HITS e THE CURE (2004), accompagnando la band in oltre 400 concerti nell’arco di quattordici anni. Dal punto di vista musicale, Bamonte privilegia un linguaggio funzionale al collettivo: parti ritmiche cesellate, arpeggi sospesi, riff mai esibiti, sempre pensati per sostenere la voce di Smith e amplificare il carattere emotivo dei brani. È anche grazie a questo approccio che canzoni come “Friday I’m In Love”, “High” e “A Letter To Elise” riescono a tenere insieme immediatezza pop e profondità malinconica. Anche le scelte sugli amplificatori raccontano molto del suo eclettismo musicale. Bamonte affianca tre mondi sonori diversi ma complementari: il VOX AC30, caldo e dinamico, legato a una tradizione britannica attenta allo songwriting e alla ritmica, dai Beatles al Britpop; il Marshall, più ruvido e muscolare, l'amplificatore di rock e metal, capace di dare corpo e tensione alle parti più dense; e infine un Peavey dal carattere più scarno, spesso associato a un’idea di suono economico e lo-fi, scelto proprio per la sua essenzialità.
 Questa convivenza di amplificatori così distanti è una fotografia efficace della sua ricerca sonora: nessuna fedeltà ideologica a un solo timbro, ma un uso pragmatico e creativo del suono, sempre piegato alle esigenze emotive e atmosferiche della musica dei Cure. Rientrato nella band nel 2022 per un’ultima, intensa stagione dal vivo culminata nel concerto londinese "The Show of a Lost World", Bamonte ha confermato fino all’ultimo il suo ruolo: quello di un uomo chiave, silenzioso e profondamente musicale, nella storia dei Cure.


Un album da ascoltare

Al di là dei singoli più celebri a cui Perry Bamonte ha contribuito, un ascolto ideale per coglierne fino in fondo la musicalità e il ruolo chitarristico è BLOODFLOWERS (2000). Un disco nato come possibile epilogo della storia dei Cure, sospeso tra l’eredità dark degli anni Ottanta e le sonorità alternative di fine millennio. Se da un lato l’album mostra qualche compromesso stilistico legato al periodo, dall’altro conserva una forte tensione emotiva e un songwriting malinconico che rimanda a capitoli fondamentali come PORNOGRAPHY (1982) e DISINTEGRATION (1989). È proprio in questo equilibrio fragile che emerge il lavoro di Bamonte: chitarre stratificate, atmosferiche, mai invadenti, capaci di dare profondità e respiro ai brani. Un disco imperfetto, forse, ma sincero, e per questo efficace nel raccontare il suo contributo silenzioso e musicale alla band.


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