Paul McCartney sulla teoria "PID": "In fondo ero un po' morto dentro"
04 novembre 2025 alle ore 13:11, agg. alle 16:14
Paul McCartney ha parlato della leggenda "Paul Is Dead" e di come, in qualche modo, abbia rappresentato il suo mondo reale
In un’intervista pubblicata recentemente dal The Guardian, Paul McCartney ha scelto di aprirsi sulla sua condizione interiore durante gli anni della dissoluzione dei The Beatles: "Era come se fossi morto", ha ammesso, riflettendo su un periodo in cui la fama, le liti legali e la pressione mediatica sembravano avere preso il sopravvento.
McCartney racconta come, nell’autunno del 1969, una voce assurda — quella che lui fosse morto e sostituito da un sosia — si fosse rapidamente trasformata in una sorta di specchio distorto della sua realtà perché morto non lo era davvero, anche se i Beatles ci hanno giocato, ma intimamente sì.
"Ero morto in molti modi. A 27 anni, pronto per diventare un ex-Beatle, che annegavo in un mare di vicende legali che stavano prosciugando le mie energie e con il disperato bisogno di un makeover completo alla mia vita"
La rottura delle relazioni professionali e familiari, il bisogno di fuga: sono tutti elementi che McCartney mette in fila per spiegare tanto il mito che la sua vera caduta.
La fuga in una fattoria in Scozia con la moglie Linda e i figli — un gesto che per molti è stato solo una curiosità, ma per lui è stato la salvezza: "L’isolamento era proprio ciò di cui avevamo bisogno".
La fine di un'era e "Paul Is Dead"
Da un lato, quindi, la realtà di un artista stremato, vittima del successo e della sua stessa leggenda; dall’altro, la leggenda del “Paul è morto” che circolava tra fan, radio americane e media popolari alla fine degli anni Sessanta. La voce era già in giro dal 1966 ma esplose vero e proprio boom nel 1969, grazie anche a un DJ statunitense.
Paradossalmente, McCartney ammette di aver ritenuto la voce allora “surreale”, ma oggi la definisce quasi premonitrice "Sto cominciando a pensare che quei rumors fossero più accurati di quanto si pensasse all’epoca".
In quel periodo critico, i Beatles si stavano sciogliendo: l’album finale, l’addio alle tournée, le tensioni interne, la necessità di una ristrutturazione totale del gruppo. McCartney non solo era uno dei protagonisti, ma anche uno dei più vulnerabili. Ridurre la questione solo al “rumor” significherebbe perdere il senso della sua sofferenza. E lo stesso McCartney lo riconosce: non era morto fisicamente, ma era “morto” per via della sua identità professionale e del peso del passato.
Così, la scelta della vita rurale in Scozia — lavorare con le mani, prendersi cura della famiglia, imparare nuovi mestieri — diventa metafora di una rinascita artistica e personale. Un “new Paul” che emerge dal caos, e che accetta la fine di un’era per iniziarne un’altra.
La leggenda di “Paul è morto”: il mito che non smette di vivere
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, mentre il mondo si interrogava sulla sorte dei Beatles, prese corpo una delle teorie più famose della storia della musica: la leggenda di “Paul is dead”.
Secondo questa narrazione, Paul McCartney sarebbe morto in un incidente automobilistico il 9 novembre 1966 e sarebbe stato segretamente sostituito da un sosia, scelto per somigliargli fisicamente e capace di replicarne la voce e il talento. Tutto, ovviamente, coperto dal silenzio complice degli altri tre Beatles e della casa discografica, preoccupati di non distruggere il sogno collettivo che la band rappresentava.
La storia, nata come una diceria studentesca, esplose nel 1969 quando un DJ americano lanciò in radio l’ipotesi della “morte di Paul”, invitando gli ascoltatori a cercare indizi nei dischi. Da quel momento la caccia ai segnali nascosti diventò un vero fenomeno pop: migliaia di fan iniziarono a interpretare copertine, testi e fotografie come se i Beatles avessero disseminato una serie di messaggi criptici per confessare la verità.
La copertina di Abbey Road ne è l’esempio più celebre: i quattro Beatles che attraversano la strada come in un corteo funebre, con McCartney scalzo — simbolo di morte nella tradizione britannica — e fuori passo rispetto agli altri. Accanto a loro, una Volkswagen con la targa “28IF”, che molti lessero come “28 if he had lived”, ovvero “28 anni, se fosse vivo”.
Altri presunti indizi vennero trovati nei testi delle canzoni: in Strawberry Fields Forever qualcuno giura di sentire John Lennon mormorare “I buried Paul”; in A Day in the Life la frase “He blew his mind out in a car” fu interpretata come il racconto dell’incidente fatale. Persino la sigaretta che Paul tiene con la mano destra in una celebre foto – nonostante sia mancino – venne considerata una prova. I fan si trasformarono in detective, analizzando ogni dettaglio alla ricerca di conferme.
La risposta ufficiale arrivò solo nell’ottobre del 1969, quando l’ufficio stampa dei Beatles definì la storia “un’assurdità totale”. Eppure, come accade ai miti più forti, la leggenda non morì. Al contrario, continuò a circolare per decenni, trovando nuova linfa nell’era di Internet e nei forum dedicati al rock. Paul stesso, con la sua consueta ironia, decise di giocarci sopra: nel 1993 pubblicò l’album live Paul Is Live, parodia diretta del mito e delle sue infinite teorie.
Oggi, guardando indietro, questa leggenda appare come molto più di un semplice pettegolezzo musicale. È uno specchio della società di massa e della nascita del fanatismo pop, un momento in cui la cultura giovanile cominciò a leggere i propri idoli come figure mitologiche, piene di segreti e simboli da decifrare. Nel caso di McCartney, “Paul è morto” finì per diventare, suo malgrado, una metafora perfetta della sua stessa rinascita: l’artista che muore per rinascere, che lascia alle spalle il peso dei Beatles per costruire una nuova identità.