OZZMOSIS – L’omologazione di Ozzy al suono dei Novanta
22 ottobre 2025 alle ore 19:21, agg. alle 11:51
Pubblicato nel 1995, OZZMOSIS segna la svolta di Ozzy Osbourne verso un rock più levigato e moderno, tra successo commerciale e rinuncia al metal puro.
Pubblicato il 23 ottobre 1995, OZZMOSIS rappresenta un momento cruciale per Ozzy Osbourne. Dopo quattro anni di silenzio discografico, l’ex voce dei Black Sabbath torna con un album che deve confrontarsi con un panorama musicale completamente mutato: il grunge, il britpop e l’alternative hanno spazzato via gli eccessi dell’hard rock.
Con una formazione stellare — Zakk Wylde alla chitarra, Geezer Butler al basso, Rick Wakeman degli Yes alle tastiere e Deen Castronovo alla batteria — Ozzy si affida al produttore Michael Beinhorn, artefice di SUPERUNKNOWN dei Soundgarden, per ridisegnare il suo suono. Il risultato è un successo commerciale importante, ma che paga dazio sul piano dell’autenticità: la band suona con il freno a mano tirato, sacrificando l’impatto, le acrobazie chitarristiche e la veracità del sound tipico di Ozzy.
L'esigenza di cambiare
Nel 1995 Ozzy Osbourne pubblica OZZMOSIS, un disco che fotografa in modo nitido un momento di transizione, non solo per lui ma per l’intero rock. Siamo nel cuore degli anni Novanta, in un’epoca in cui il metal e l’hard rock degli anni Ottanta – generi di cui Ozzy era stato protagonista assoluto – vivono una brusca crisi d’identità. La rivoluzione grunge ha appena imposto un nuovo linguaggio: più diretto, viscerale, quasi cantautoriale. Alanis Morissette rappresenta la declinazione più personale e introspettiva di quella lezione, mentre dall’altra parte dell’oceano il britpop recupera la semplicità del rock classico guardando ai Beatles più che al punk o il blues. In questo scenario, Ozzy deve trovare un posto. E OZZMOSIS è il tentativo – riuscito commercialmente, più incerto artisticamente – di adattarsi a un mondo che non è più il suo. Prima di tutto, va ricordato il peso dell’eredità che Ozzy si portava addosso: OZZMOSIS nasce come seguito di NO MORE TEARS (1991), uno dei dischi più acclamati della sua carriera. Trainato da brani iconici come “No More Tears” e “Mama, I’m Coming Home”, quel lavoro aveva mostrato un’intesa straordinaria tra Ozzy e Zakk Wylde. Il chitarrista, con la sua potenza, modernità e sensibilità melodica, era diventato il suo vero alter ego, riportando Osbourne al suo massimo, dopo il grave appannamento conseguenza della tragica scomparsa di Randy Rhoads. Solo quattro anni dopo, però, il contesto era cambiato: l’ondata grunge e la nascita dell’alternative rock avevano reso impossibile riproporre la stessa formula. Per capire il peso di questa svolta, basta ricordare cosa ha rappresentato Ozzy fino a quel momento. Negli anni Settanta aveva fondato i Black Sabbath, contribuendo letteralmente a inventare il metal. Negli anni Ottanta aveva rilanciato la propria carriera solista circondandosi di chitarristi leggendari: Randy Rhoads, Brad Gillis , Jake E. Lee e, appunto, Zakk Wylde. In ogni disco la chitarra era coprotagonista, portatrice di riff, virtuosismi e personalità. Con OZZMOSIS tutto questo cambia. L’album riduce drasticamente lo spazio per l’esuberanza chitarristica, mettendo al centro la voce e l’intensità emotiva di Ozzy. È un disco che parla più al mercato che ai fan storici, e che riflette la tendenza dell’epoca a preferire la produzione, il muro del suono, la melodia a preziosismi tecnici, eccessi e spigolature di heavy metal hard rock.
Una produzione tra grunge e alternative
Gran parte del merito – e della responsabilità – è di Michael Beinhorn, produttore di punta del rock alternativo. Alle spalle aveva THE UPLIFT MOFO PARTY PLAN dei Red Hot Chili Peppers e, solo un anno prima, SUPERUNKNOWN dei Soundgarden, uno dei manifesti del grunge. Di lì a poco avrebbe prodotto MECHANICAL ANIMALS di Marilyn Manson e CELEBRITY SKIN delle Hole: due dischi chiave della fine del decennio. Beinhorn è un produttore attento all’impatto commerciale, più interessato all’impianto sonoro che al virtuosismo strumentale, e OZZMOSIS rispecchia perfettamente questo approccio: produzione pulita, grande attenzione alle voci, ma poco slancio strumentale e chitarristico. Eppure la formazione era stellare: Zakk Wylde alla chitarra, Geezer Butler al basso – l’unico album solista di Ozzy con il bassista originario dei Black Sabbath – Rick Wakeman (Yes) alle tastiere e Deen Castronovo alla batteria. Castronovo, che in quegli anni collaborava con virtuosi come Tony MacAlpine e Steve Vai, era uno strumentista prodigioso, l’emblema di quella tecnica anni Ottanta che qui viene tenuta a bada. Tutti suonano “con il freno a mano tirato”, sacrificando il talento individuale per l’equilibrio dell’insieme. Castronovo, che considerava Ozzy un idolo d’infanzia, realizzò il sogno di registrare con lui ma fu poi licenziato – pare per volere di Sharon Osbourne – con la motivazione di essere “ottimo in studio ma mediocre dal vivo”. C’è un altro nome che aleggia sull’album: Steve Vai. Nel 1994 aveva scritto diversi brani con Ozzy, e sembrava destinato a essere il chitarrista del nuovo disco. Il progetto però si interruppe per divergenze personali, e di quel materiale restò soltanto “My Little Man”, suonato non da Vai ma da Wylde. Secondo Vai, esisterebbe ancora “un intero album di Ozzy” registrato in quel periodo e mai pubblicato. Pur tra tensioni e cambi di rotta, OZZMOSIS ottenne un notevole successo commerciale: disco di platino negli Stati Uniti e top 5 nella Billboard 200. Brani come “Perry Mason”, “See You on the Other Side” (dove nella strofa Ozzy sembra fare il verso ai Tears For Fears) e “I Just Want You” restano comunque grandi prove di songwriting e tra i pezzi più rappresentativi del suo repertorio degli anni Novanta. È un album elegante, a tratti disorientante, dove l’oscurità sabbathiana lascia spazio a un rock adulto, pulito, con riflessi pop gotici e melodici. Più che un cedimento, OZZMOSIS è la fotografia di un artista che, per restare nel presente, sceglie di sacrificare parte della propria identità.