Last Dinner Party: tra Bowie, Queen e nuove visioni art rock
30 settembre 2025 alle ore 16:15, agg. alle 12:40
Scoprire le Last Dinner Party significa entrare nell’art rock di Emily Roberts: una chitarra che unisce Bowie, Queen e le visioni spigolose di St. Vincent.
Le Last Dinner Party hanno portato una ventata nuova nella scena rock internazionale. In poco tempo sono riuscite a distinguersi con un approccio che affonda le radici nell’art rock, la corrente che dagli anni ’70 con Bowie, i Queen, Kate Bush e Peter Gabriel ha provato a liberare la canzone dalla rigidità pop, mantenendo però intatta la sua immediatezza.
In questo percorso la chitarra di Emily Roberts è un tassello centrale: il suo bagaglio jazz, classico e rock plasma il linguaggio del gruppo. Un suono che mescola raffinatezza, sperimentazione e impatto, influenze storiche e visione contemporanea.
Art Rock
Le Last Dinner Party si formano a Londra nel 2020 e in pochissimo tempo passano dall’anonimato ai riflettori internazionali, affermandosi come uno dei nomi più discussi del rock contemporaneo. Il debutto PRELUDE TO ECSTASY (2024) è entrato direttamente al numero uno delle classifiche UK: un successo sorprendente per una band giovane, ma perfettamente leggibile se si inquadra la loro proposta dentro un preciso filone, l’art rock. Un approccio con radici negli anni ’70 e interpreti storici come David Bowie, i Queen, Kate Bush o Peter Gabriel. L’art rock nasce dall’idea di portare la canzone oltre i confini pop, sfuggendo alla rigidità della forma strofa-ritornello e alla convenzionalità del trittico chitarra-basso-batteria. Significa osare con arrangiamenti e suoni, mescolando sintetizzatori, tastiere ed elettronica con archi, fiati e strumenti acustici o folklorici. E, a differenza del progressive — che nella stessa tensione alla ricerca ha spesso scelto complessità e cerebralità — l’art rock punta all’originalità senza sacrificare l’accessibilità. Quella che, senza timore di banalizzare, chiamiamo orecchiabilità: la capacità di restare immediato, diretto, cantabile. Le Last Dinner Party calano questo DNA in una dimensione tutta contemporanea. Non fanno revival, non vivono di citazioni: ricombinano i materiali in maniera personale, impermeabile ai trend più frivoli. Nei loro brani c’è la teatralità barocca e visionaria di Kate Bush, l’opulenza dei Queen, la libertà di David Bowie e Peter Gabriel, ma filtrate da sensibilità attuali che guardano anche a realtà come Boygenius. Il risultato è un rock che vuole mettere in scena, raccontare, costruire mondi emotivi e collettivi.
La chitarra di Emily Roberts
All’interno di questa visione spicca Emily Roberts, chitarrista e motore musicale della band. Il suo background accademico, fatto di studi jazz e classici, le ha dato basi solide, ma la sua formazione è tutt’altro che confinata. Roberts guarda alla musica con un’ottica a 360 gradi: dalla raffinatezza orchestrale e lirica di Brian May, alle ritmiche dolci e intricate di Jeff Buckley, fino al chitarrismo acido e spigoloso di St. Vincent e alla magniloquenza elettrica di Eddie Van Halen. Una pluralità di riferimenti che, affrontati con lo stesso entusiasmo con cui ha studiato jazz e musica colta, rende la sua chitarra centrale nel linguaggio della band. Non virtuosismo sterile, ma una tavolozza versatile che sostiene gran parte dell’identità sonora del gruppo. Roberts ha iniziato giovanissima con lezioni impostate su teoria, solfeggio e contrabbasso, ma presto ha capito che quello non era il suo terreno. La folgorazione è arrivata vedendo un’amica divertirsi con canzoni pop e riff dei Beatles: un modo più immediato di vivere la musica, che l’ha convinta a cambiare rotta. I primi brani studiati, "Tears in Heaven" di Eric Clapton e vari classici dei Led Zeppelin, l’hanno definitivamente allontanata dal contrabbasso per abbracciare la chitarra. Da lì il passaggio all’elettrica, ai primi gruppi jazz al liceo, fino agli studi accademici con un percorso quadriennale in chitarra jazz. Accanto allo studio, la curiosità la porta sulle lezioni di chitarra presenti su YouTube, dove esplora, prova e assimila di tutto, persino il metal.
Prelude To Ecstasy
Ascoltare PRELUDE TO ECSTASY (2024) è il modo migliore per entrare nel suo universo sonoro. L’album mette in fila brani che mostrano quanto il suo approccio sia eclettico, curioso e pronto a spingersi in direzioni inattese. In “Gjuha” utilizza scale musicali esotiche che mescolano musica classica, sonorità mediorientali e jazz: un’idea nata dal "Corpus Christi Carol" di Jeff Buckley che, con l’aggiunta del mandolino, assume colori da world music senza mai perdere intensità rock. In “Sinner” intreccia linee chitarristiche e voci stratificate, tra spigolature atonali vicine a St. Vincent e momenti che ricordano - ancora - Brian May. “My Lady Of Mercy” vive invece sul contrasto: strofe pulite e leggere che cedono il passo a ritornelli ispirati ai Nine Inch Nails, con una distorsione debordante, un fuzz da rock industriale che Roberts riesce, però, a tenere sotto controllo perché non diventi mai eccessivo. Infine, “Mirror” mostra la sua anima più rock, con un assolo che mescola vibrato ampio, fraseggi veloci e soluzioni mutuate da lezioni sul linguaggio elettrico rock moderno, vicino a Van Halen, altro gigante studiato e amato dalla chitarrista. Roberts stessa racconta che la chiave è imparare la tecnica per poi dimenticarla, lasciando che siano istinto e ascolto a guidarla. PRELUDE TO ECSTASY lo dimostra: ogni canzone è un laboratorio di suoni che non rinuncia mai all’impatto emotivo, ed è lì che la sua firma emerge con più forza.