La lezione di Robert Plant
02 ottobre 2025 alle ore 12:37, agg. alle 14:19
La voce dei Led Zeppelin rivendica la propria natura umana per non scimmiottare un passato glorioso
L’aspettativa dei fan era alle stelle. Per la riunione dei Led Zeppelin alla 02 Arena di Londra c’erano state richieste per 20 milioni di biglietti a fronte di 18mila posti.
Il concerto del 10 dicembre 2007 in onore dello scomparso boss della Atlantic Ahmet Ertegun si rivelò leggendario, come documenta il film “Celebration Day”.
Il live avrebbe dovuto tenersi due settimane prima, il 26 novembre, ma durante le prove (segretissime) Jimmy Page si era fatto male a un mignolo, avevano dovuto steccargli la mano. Avrebbe voluto bruciare le corde della chitarra per l’eccitazione, per la febbre di sentirsi ancora al centro di quella band incendiaria, che dalla morte di Bonzo Bonham si era consegnata al passato, rispettando il lutto per l’insostituibile batterista.
Ma stavolta era diverso.
Il tentativo di reunion dei Led Zeppelin
Con Jason, il figlio di John, a ereditarne le bacchette, la potenza di fuoco degli Zep era tornata come per magia.
E nessuno, tra quelli che avevano partecipato o assistito allo storico evento della Wembley Arena, era propenso a credere che, dopo, non vi sarebbe stato un vero tour mondiale: un affare miliardario, un business plan che attrasse molti investitori nella filiera del rock.
Qualcosa come un ritorno dei Beatles e molto più remunerativo della pace familiare dei Gallagher che ha riportato gli Oasis in vita quest’anno. Page si mostrava possibilista: il rodaggio c’era stato, il test superato. E poi quel sussurro di Plant a Jason, Jimmy, John Paul nel mezzo del set: “Forza, figli del tuono!”.
Pure il cantante pareva a un passo dal decidersi, anche se gli osservatori avevano notato che per agevolare la sua performance la band aveva suonato l’intera scaletta in una tonalità più bassa del dovuto, in modo da non costringerlo a spingere spericolatamente sui falsetti come ai bei tempi.
Invecchiare con grazia
La vecchia operazione alle corde vocali aveva lasciato segni, e Robert non voleva apparire ridicolo.
Ok i Led Zeppelin, ma gli anni ‘70 erano fogli strappati sul suo calendario. No, lui si sarebbe chiamato fuori: niente carovana, niente nuovo tour, niente jet privato con il logo sulla fusoliera.
Si era prestato a uno show disastroso per il Live Aid (né Phil Collins né Tony Thompson avevano potuto sostituire degnamente Bonzo); nell’88 altro giro di giostra per i 40 anni dell’Atlantic, infine l’irripetibile incantesimo della Wembley Arena. Ce n’era abbastanza per andare oltre, senza ridursi alla patetica macchietta di se stesso.
Plant tornava a sincronizzarsi con la sua età e con i suoi desideri: a poco più di 60 anni, sentiva di voler invecchiare con grazia, affrontare l’”ageing” in modo sensato, maturo, lodevole. Niente bocciofila o panchine del parco rievocando i fasti di una gioventù azzardosa. Sfilandosi dalla tentazione del revivalismo zeppelin, si disponeva a scavare nel campo fertile del blues, del country americano, del folk britannico, cercando in profondità le radici del rock. Un percorso da artista, da filologo, da uomo consapevole che ogni età abbia un proprio respiro, e che la furia, la baldanza, l’impeto sessuale dei vent’anni cedano sempre, fatalmente, il posto all’aurea maturità del tempo senile.
La vera natura di Robert Plant
Con saggezza ed elegiaca meraviglia, Plant ha cantato perle slow con Alison Krauss (e l’album “Raising Sand”, immerso nella pace rurale del bluegrass, era non casualmente proprio del 2007); tre anni più tardi, eccolo con la Band of Joy, registrato a Nashville, e qui, a condividere il microfono con lui c’è Patty Griffin; e giù fino a oggi, fino al nuovo album Saving Grace, titolo-calco del nome del manipolo di musicisti con cui ama incontrarsi e mischiarsi, da qualche parte ai confini del Galles.
Sembra quasi una dichiarazione di understatement, un divertimento campestre: invece con i Saving Grace (e la voce limpida di Suzy Dian), Plant esplora classici perduti dei Moby Grace, di Blind Willie Johnson o dei Moby Grape come un appassionato che frughi tra i vinili polverosi nel settore “roots” di un negozio di dischi. E la bellezza di “Saving Grace” è qualcosa di più del divertissement da pub di un 77enne dal giubbotto lustro di medaglie rock.
È la rivendicazione della propria natura umana, la stoica accettazione del presente e non il patetico scimmiottamento di un passato glorioso.
Un esempio per tanti colleghi della stessa età, da Mick Jagger a Roger Daltrey (per non parlare di vocalist più giovani ma già consumati, vedi Axl Rose), che per un altro pugno di dollari accettano di veder erosa la propria grandezza grazie a un po’ di trucco sul volto, la tintura sui capelli o qualche effetto tecnologico, e forse invidiano Ozzy per quel tributo a Birmingham, rivelatosi una sorta di rito funebre anticipato.
Plant non vuole morire sul palco, mostra le rughe con la stessa regale dignità di Bob Dylan. Gli hanno chiesto mille volte se provasse nostalgia dei Led Zeppelin. Macché. “Era sfibrante esserne il frontman”.
Non scriverà la sua autobiografia, giuria. “Quando sarà, la memoria di ciò che sono stato affonderà con me”. Chapeau.