History

Kurt Cobain: l’anatomia delle chitarre di IN UTERO

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Author image Gianni Rojatti

19 settembre 2025 alle ore 12:22, agg. alle 17:37

IN UTERO: viaggio nell'universo chitarristico di Cobain; tra strumenti improbabili, sensibilità pop e attitudine punk, un timbro diventato riferimento nel rock

Il 21 settembre 1993 usciva IN UTERO, ultimo album dei Nirvana e uno dei lavori più rilevanti del rock anni ’90. A più di trent’anni di distanza, resta un disco che ha imposto un nuovo modo di intendere la chitarra, con Kurt Cobain e il produttore artistico Steve Albini decisi a catturare ogni inflessione della band, valorizzando persino le apparenti imperfezioni.

Questo anniversario è l’occasione per una retrospettiva su Kurt Cobain chitarrista e - soprattutto - sul suo approccio, crudo e magnetico al suono della chitarra elettrica, ancora oggi considerato un modello di riferimento. Con una chicca speciale: l’elenco dettagliato di strumenti e amplificatori usati in studio, utile per musicisti, chitarristi e produttori.

Il suono di IN UTERO

Il suono di chitarra di Kurt Cobain in IN UTERO resta, a trent’anni dalla pubblicazione, uno dei più destabilizzanti e suggestivi della storia del rock. Non un timbro levigato, non una distorsione scolpita a tavolino per impressionare con potenza, definizione e sfumature hi-tech: era qualcosa di viscerale, paludoso e quasi malsano ma allo stesso tempo magnetico, un magma sonoro che sembrava farsi corpo della rabbia, della fragilità e dell’urgenza espressiva di Cobain. Cobain non era un guitar hero in senso tradizionale. Non lo era nel senso in cui lo erano stati gli idoli del decennio precedente. Non ricercava soluzioni tecnologiche faraoniche, come gli U2 di The Edge con la sua cattedrale di echi e riverberi; o Andy Summers dei Police, con accordi arpeggi di chitarra soffocati in coltri di modulazioni; oppure come Steve Lukather dei Toto che sfoggiava rack di effetti e strumentazione  grandi come frigoriferi. Non era neppure un visionario cerebrale come Adrian Belew o Robert Fripp (King Crimson, David Bowie), che usavano la chitarra come laboratorio di avanguardia. E non era nemmeno uno di quei prodigi che con la sola potenza del volume e delle dita sparava la chitarra dentro l’amplificatore a palla e incendiava il palco come Ritchie Blackmore dei Deep Purple, Paul Kossoff dei Free, Slash dei Guns N’ Roses o Angus Young degli AC/DC. Né uno di quei poeti capaci di far piangere con le melodie spremute delle loro scale blues come David Gilmour, Jeff Beck o Eric Clapton. Cobain era tutt’altro. Il suo suono nasceva da un’attitudine soprattutto punk, arricchita e nobilitata da una sensibilità di scrittura pop (nel senso più alto e nobile del termine) inedita: Cobain scriveva cose bellissime, melodiche e ispirate, per poi declinarle alla chitarra con intensità drammatica, feroce, punk. E si divertiva a incastrare combinazioni insolite di strumenti e amplificatori, anche usati, economici, malconci. La sua chitarra era un’arma scarna e brutale, che riportava il rock alle origini e, allo stesso tempo, lo spingeva controcorrente rispetto allo scintillio tecnologico del rock patinato dei tardi ’80. In questo senso Cobain e IN UTERO (come del resto tutta la scena grunge e alternative) devono tantissimo a Neil Young, che per primo aveva immerso giri di accordi semplici e quasi acustici, in coltri di distorsione fangosa. Una ricerca che andava persino oltre a quanto avevano fatto le chitarre di Steve Jones dei Sex Pistols in NEVER MIND THE BOLLOCKS, perché non puntava su velocità o compattezza — come nel blues, nell’hard rock e nel metal — ma a creare un’estetica sonora cupa, malinconica, destabilizzante.



Un meraviglioso chitarrista ritmico

Lo abbiamo detto: Kurt Cobain non era un funambolo della scala blues, non macinava riff in sedicesimi né improvvisava con il bernoccolo del jazz rock. Era però, per suono, attitudine, potenza e precisione sugli attacchi, uno dei chitarristi ritmici più stupefacenti che il rock avesse visto: la sua efficacia e la sua cattiveria sulle ritmiche possono guardare dall’alto del podio anche quelle di Malcolm Young (AC/DC) o Pete Townshend (Who). Fondamentale nel risultato finale fu il rapporto con Steve Albini, il produttore scelto per il disco. Albini odiava le sovraincisioni ridondanti e il perfezionismo da studio patinato: voleva catturare la band così com’era, crudele e reale. Le chitarre di IN UTERO non sono equalizzate, editate, messe in "bella copia": sono lasciate ruvide, con bordi taglienti e una dinamica che alterna fragilità quasi acustica e valanghe di saturazioni e feedback fuori controllo. Cobain portò i suoi strumenti, Albini li microfonò senza trucco, lasciando che l’amplificatore urlasse, che i coni vibrassero, che la stanza stessa diventasse parte del suono. È per questo che IN UTERO suona così organico e dissonante: non c’è separazione tra la band e il disco, non c’è filtro tra Cobain e l’ascoltatore. 




IN UTERO: chitarre & amplificatori

A rendere unico quel suono fu anche la strumentazione, tutt’altro che di lusso ma combinata in modo inaspettato. Cobain portò con sé un paio di Fender: la sua Mustang Competition Blue e una Jaguar; a queste si aggiungeva  una leggendaria chitarra Veleno in alluminio di Steve Albini. Per gli amplificatori, il cuore era il Fender Quad Reverb, un colosso prodotto solo per pochi anni e oggi rarissimo. Ma il segreto non stava solo nell’ampli: stava negli speaker. Qui vale la pena aprire una parentesi per i non addetti ai lavori: un amplificatore per chitarra può essere un combo (ampli e casse insieme in un unico blocco), oppure una testata (solo la parte elettronica, da collegare a una cassa esterna). La cassa è quella che monta i coni, ovvero gli altoparlanti. E cambiare coni significa cambiare radicalmente il carattere del suono, anche con lo stesso amplificatore. I Quad Reverb montavano solitamente coni/speaker Oxford (riconoscibili dagli adesivi blu), ma per un periodo Fender li sostituì con i meno diffusi Utah, contrassegnati dall’etichetta arancione. Fu proprio questo ingrediente a contribuire all’impatto sonoro di IN UTERO: speaker che naturalmente producevano una distorsione sporca, quasi filtrata, dal carattere unico. In studio, Albini catturò questo incrocio di strumenti, coni e stanze, e lo fissò su nastro senza addolcirlo. È da lì che nacque quella massa sonora che alterna esplosioni devastanti e fragilità disarmanti, uno dei tratti più caratteristici dell’intera stagione grunge. Alla fine, però, il tecnico chitarre di Cobain, Ernie Bailey, ha ricordato in un’intervista del 2014 che la strumentazione contava relativamente poco: «I Nirvana erano una rock band che usava strumenti buoni e meno buoni, ma ciò che li rese importanti erano le canzoni». Un principio tra i più diffusi tra musicisti, arrangiatori e produttori: la prima condizione perché un pezzo abbia un grande suono è che sia scritto bene. Se la scrittura delle parti è armoniosa, le melodie incisive e l’arrangiamento accompagna la narrazione della canzone, è più facile per i musicisti trovare lo spazio giusto, non affollare il suono, dare aria a ogni strumento. La prova del nove è che i brani più grandi e celebri della storia del rock, anche quelli che abbiamo amato per arrangiamenti ricchi e sfarzosi, riescono a colpire con la stessa intensità quando vengono eseguiti solo chitarra e voce. IN UTERO non fa eccezione: un disco che ha fissato in modo indelebile il timbro elettrico e dissonante di Kurt Cobain, mostrando come dalla semplicità e dall’urgenza possa nascere un suono destinato a diventare un riferimento nel rock.



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