Iron Maiden nel futuro con Somewhere in Time
29 settembre 2025 alle ore 15:40, agg. alle 17:30
Gli Iron Maiden entravano nel futuro con l'azzardo Somewhere In Time, un disco futuristico frutto delle tensioni tra Bruce Dickinson e il resto della band
Pubblicato il 29 settembre 1986, "Somewhere in Time" rappresenta uno dei capitoli più ambiziosi e controversi nella discografia degli Iron Maiden.
Un album figlio della stanchezza, dell’innovazione e di una visione futuristica che, ancora oggi, continua a dividere e affascinare.
Dietro ai sintetizzatori, alle copertine sci-fi e alle tematiche temporali, si nasconde il riflesso di una band sotto pressione, reduce dal successo mondiale di "Powerslave" e del mastodontico "World Slavery Tour".
Corre l’anno 1985 e gli Iron Maiden sono, senza mezzi termini, una delle band metal più grandi del pianeta.
Il tour mondiale di Powerslave, il World Slavery Tour, è stato un’epopea epica: 331 date in 13 mesi, palchi imponenti, una macchina organizzativa che rasentava il militare.
Ma quando le luci si spengono e le casse si zittiscono, ciò che resta è una band sfinita fisicamente e mentalmente. Bruce Dickinson, in particolare, si ritrova svuotato, privo di ispirazione, con un piede sull’acceleratore della creatività e l’altro nel baratro del burnout.
In questo clima di pressione e cambiamento, la band si ritira per comporre quello che sarà il sesto album in studio.
Le tensioni interne e il nuovo approccio compositivo
Dopo aver lasciato che Powerslave si nutrisse di tematiche egizie e classiche, Dickinson propone una svolta acustica, più organica, forse influenzata dai suoi ascolti dell’epoca, ma il resto della band — soprattutto Steve Harris — rifiuta l’idea. Ne nasce uno scollamento interno: Dickinson, per la prima (e unica) volta nella carriera di Maiden, non firma nemmeno un brano sull’album.
Il cuore compositivo resta Harris, supportato da Adrian Smith, che proprio in questo album esplode come autore completo. Su sei brani, tre portano la sua firma, e sono tra i più amati e significativi dell’intero disco.
Ma ciò che rende Somewhere in Time così divisivo è il suo suono. Per la prima volta, gli Iron Maiden introducono l’uso dei sintetizzatori, che donano al disco un’atmosfera spaziale, eterea, rarefatta, distante dalla crudezza NWOBHM degli esordi. Non si tratta di tastiere vere e proprie, ma di un’espansione timbrica ottenuta attraverso effetti e rack digitali.
Il risultato? Un suono stratificato, quasi cinematografico, che accompagna perfettamente il concept lirico legato al tempo, alla memoria e alla fantascienza. Il tutto reso ancora più iconico dalla celebre copertina di Derek Riggs: un Eddie cyborg in una distopica città del futuro, zeppa di citazioni nascoste — da Blade Runner a Doctor Who, passando per omaggi auto-referenziali alla storia della band.
Il filo conduttore del disco è il tempo — inteso come nemico, come memoria, come fuga. I testi oscillano tra il personale (come in Wasted Years) e il mitologico (Alexander the Great), passando per l’esistenziale (Déjà Vu, Sea of Madness). L’idea del tempo come labirinto senza uscita viene rafforzata da una produzione stratificata, dove le chitarre sintetiche sembrano sussurrare da un’altra dimensione.
Le sessioni di registrazione: Nassau e i suoni dell’isola
Le sessioni di registrazione di Somewhere in Time si svolsero in due location molto diverse tra loro: i Compass Point Studios di Nassau, nelle Bahamas, e i Wisseloord Studios a Hilversum, nei Paesi Bassi. La scelta non fu casuale: gli Iron Maiden avevano già registrato Piece of Mind (1983) e Powerslave (1984) a Nassau, attratti dal clima favorevole, dalla riservatezza e da una tassazione più leggera rispetto al Regno Unito. Ma questa volta, l’atmosfera non era quella rilassata degli anni precedenti.
La band arrivava al lavoro esausta dal tour mondiale e, come dichiarato più volte dallo stesso Bruce Dickinson, c’era una tensione sottile ma palpabile durante tutto il processo creativo. Adrian Smith e Steve Harris prendevano il comando delle operazioni compositive, mentre Bruce si ritrovava marginalizzato, frustrato dal rifiuto del gruppo verso le sue idee più sperimentali e acustiche. Questo isolamento si rifletterà direttamente nella scaletta finale: per la prima volta, Dickinson non firma neanche un pezzo.
Dal punto di vista tecnico, Somewhere in Time segnò un cambio netto nella produzione. Il produttore Martin Birch, da sempre al timone della nave Maiden, si trovò a dover gestire una transizione sonora importante. La band volle esplorare nuove frontiere timbriche, introducendo i famigerati synth-guitar, ovvero delle chitarre trattate con effetti digitali per ottenere suoni eterei, fluttuanti, a tratti alieni. Non si trattava di tastiere vere e proprie, ma di un’ibridazione tra analogico e digitale che richiese settimane di sperimentazione.
Dave Murray e Adrian Smith, in particolare, passarono ore a lavorare sui loro suoni, cercando il perfetto equilibrio tra l’aggressività tipica del sound Maiden e le nuove atmosfere futuristiche. Lavoravano con rack di effetti avanzati per l’epoca, come i Roland GP-8 e i sintetizzatori per chitarra Roland GR-700, per ottenere quel tono sospeso che caratterizza gran parte dell’album. Il rischio era quello di snaturare la band, ma il risultato fu un compromesso audace e visionario.
Un altro aspetto curioso delle sessioni fu il modo in cui vennero registrate le batterie di Nicko McBrain. Le sonorità degli anni ’80 volevano batteristi dal suono più secco, compressato e definito. Birch, però, volle mantenere la dinamica naturale di McBrain, registrando in stanze ampie e con microfonazioni distanti, per preservare la tridimensionalità del suono. Questo si sente bene in brani come The Loneliness of the Long Distance Runner o Caught Somewhere in Time, dove la batteria sembra "respirare" in mezzo agli strati di chitarre sintetizzate.
Anche le registrazioni vocali furono atipiche. Birch dovette lavorare più del solito con Dickinson per ottenere il meglio dalla sua voce, complice una certa fatica vocale e mentale accumulata dal tour. Bruce, abituato a registrare in modo istintivo e diretto, si trovò spesso a ripetere take su take, alla ricerca di sfumature più melodiche e meno teatrali. Il risultato? Una prova vocale più contenuta, ma anche più riflessiva, in linea con il mood del disco.
Infine, le sovraincisioni e il mix finale vennero completati nei Wisseloord Studios in Olanda, una scelta dettata dalla qualità delle strutture e dalla volontà di isolarsi dalla pressione mediatica britannica. Qui, Birch affinò i dettagli, bilanciò le texture sonore e consegnò all’etichetta un album dallo spirito quasi cinematografico, lontano dalle produzioni heavy metal tradizionali dell’epoca.
Il processo fu lungo, faticoso e a tratti frustrante, ma proprio da quella tensione nacque uno degli album più unici e sperimentali dell’intero catalogo Maiden. Una dichiarazione d’intenti: anche nel cuore degli anni ’80, tra l’esplosione del glam metal e l’ascesa del thrash, gli Iron Maiden erano disposti a rischiare, anche a costo di spiazzare il proprio pubblico.
Un album controverso e riscoperto
Quando Somewhere in Time uscì, il 29 settembre 1986, il mondo della musica metal stava cambiando. In America esplodevano il thrash e il glam, in Europa la scena si frammentava, e gli Iron Maiden si ritrovarono al centro di una transizione generazionale e sonora. L’album rappresentava per la band un’evoluzione netta: nuovi suoni, temi sci-fi, un’estetica cyberpunk molto distante dal misticismo egizio di Powerslave o dalle atmosfere gotiche di The Number of the Beast.
L’accoglienza della critica fu spiazzata, quando non fredda. Molti recensori non capirono — o non vollero capire — la scelta di introdurre le chitarre sintetizzate, interpretandola come un ammorbidimento del suono Maiden. Le parole “tradimento” e “commercializzazione” vennero usate con troppa leggerezza. Anche parte del pubblico, specialmente quello più legato alla prima ora della band, fece fatica a metabolizzare il nuovo corso. Tuttavia, al netto delle critiche, l’album si piazzò subito ai vertici delle classifiche mondiali: #3 nel Regno Unito, #11 negli Stati Uniti, e top ten praticamente ovunque in Europa.
Il Somewhere on Tour (1986-1987) fu uno dei più ambiziosi mai realizzati dalla band. L’intero concept futuristico del disco venne portato in scena con uno spettacolo visivo imponente, degno di un film di fantascienza. Il palco era una metropoli del futuro: torri al neon, schermi, luci stroboscopiche, e un Eddie-cyborg gigante che compariva tra fumo e laser, in perfetto stile Blade Runner. Un’impresa scenografica che portò i Maiden ancora più avanti rispetto ai già maestosi tour precedenti.
Col passare del tempo, l’opinione su Somewhere in Time cambiò radicalmente. Gli anni ’90 e 2000 portarono una riscoperta dell’album, soprattutto da parte di nuove generazioni di ascoltatori, attratti proprio da quella sua aura futuristica e malinconica. Oggi, è considerato a tutti gli effetti uno dei dischi più audaci e visionari della Vergine di Ferro, apprezzato per il coraggio stilistico e la coerenza tematica.