Geese, sono loro la nuova speranza del rock?
23 ottobre 2025 alle ore 12:27, agg. alle 12:46
La band newyorkese, giunta al terzo album con "Getting Killed", mette in campo una serie inafferrabile di influenze per la generazione degli Anni Venti
Al largo, quasi sulla linea dell’orizzonte, qualcuno avvista l’onda ribollente che potrebbe sommergere i Geese. Loro intanto sono qui, ben piantati sulla riva, i quattro mattocchi di Brooklyn, la spiazzante anomalia r’n’r degli Anni Venti.
Si sono conquistati un lembo di spiaggia da cui mostrano un’indefinibile follia, un suono che mette sotto scacco ogni recensore, perché in questo terzo album “Getting Killed” ci ritrovi dentro di tutto, quei giganti del passato che sapevano cavalcare l'onda alta – dai Television agli Stones agli Zeppelin passando per i Birthday Party, i Velvet Underground e i Radiohead – e che arrivando troppo a ridosso di questi ventenni potrebbero travolgerli, sommergerli, spazzarli via.
Eppure, una volta che i fantasmi (vocali, soprattutto) di Thom Yorke, Nick Cave o se è per questo pure di Julian Casablancas degli Strokes accerchiano il frontman dei Geese Cameron Winter, capisci che lui la farà franca, e così la band.
Gli spettri, gli echi della golden age, le reminiscenze della miglior storia del rock spariscono sulla battigia, sotto i piedi di questi deliziosi incoscienti che ti negano la sintesi della propria creatività, consentendone all’osservatore solo l’analisi, a patto di sezionare le canzoni minuto per minuto, istante per istante.
E mentre ti convinci che si tratti di post-punk o new-new-wave, ecco la virata verso un funk tribale, poi la psico-avanguardia, e ancora la suggestione onirica alla Echo & The Bunnymen, la pazzia deumanizzata dei DNA, e via di questo passo.
Allora ci si chiede: cosa sono i Geese di “Getting Killed”? Un bignami con “il meglio di”? Un file zippato di migliaia di dati della fenomenologia rock dell’ultimo mezzo secolo? Un puzzle di stili e generi con quei frammenti che se li guardi pensi che non combaceranno mai e invece miracolosamente svelano il quadro?
La speranza del rock ?
Il minimo che si possa dire di loro è che hanno riacceso un fuoco sulle speranze del rock di cavarsela, di immaginare un altro viaggio, ipotizzando di salpare le ancore verso chissà dove, magari fai naufragio, non trovi terra dall’altra parte, machissenefrega, nessuno lo saprà mai.
Ecco, nel deserto del coraggio della scena del Terzo Millennio, i Geese si nutrono di avventurismo, e tanto basta.
Non sono copisti del Bello & Buono come i Greta Van Fleet (che a lungo andare mostrano i segni dei lacci con cui il sistema musicale li ingabbia per venderli a prezzo d’occasione) né spaventosi parti dell’inesistente come i Velvet Sundown, suggestivi hippy-freak retrò generati dall’Intelligenza Artificiale.
I Geese sono stati così sfigati da andare a registrare questo album in una Los Angeles che bruciava davanti ai loro occhi, e così fuori schema da esultare tutti insieme quando uno di loro la sfanga, come accaduto per l’adorabile disco solista del cantante, Cameron, il cui titolo “Heavy Metal” va semplicemente decifrato al contrario, pieno com’è di perle acustiche che si reggono in equilibrio per puro miracolo.
Evviva i Geese!
I Geese che si fanno un vanto, e forse anche un calcolo, di riempire i propri pezzi di errori tecnici, come fosse uno statement, una dichiarazione d’intenti, un oltraggio al perfezionismo e alla plastificazione pretesa dal mercato: poi, astutamente, passano intere giornate in studio per ottenere quel piccolo dettaglio, quella sbavatura cool da faccetoste figliati in quella New York sghemba che da Lou Reed e Patti Smith ti insegna a non chiedere indicazioni a nessuno che incontri, perché devi cavartela da solo, sul marciapiede.
Evviva i Geese, allora. Il punto è: chi è pronto a piantare le tende nello stesso quartierino? Sono una felice eccezione ma resta l’evidenza che il grande rock sia comunque morto dopo – mettiamo – i Nirvana e i Radiohead? O grazie a questa wild card possiamo confidare che qualche giovane musicista trovi la spavalderia per inventare qualcosa di interessante, che non sia puramente derivativo?
L’emulazione dei miti è sempre cosa saggia, ma la filiera in crisi permanente chiede agli artisti emergenti di non andare troppo oltre, di farsi riconoscere attraverso vecchie, consunte parole d’ordine.
E il futuro più che prossimo prevede solo investimenti cheap con l’IA, roba da software e non più da cantine dove far sanguinare le dita e spremersi le meningi per impastare una canzone originale. Chi c’è sulla spiaggia con i Geese? La loro solitudine è un allarme, non un trionfo.