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Garbage, il grido d'allarme di Shirley Manson

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Author image Doctor Mann

16 ottobre 2025 alle ore 12:30, agg. alle 12:45

La frontwoman dei Garbage mette in guardia, dal palco, sul futuro dei musicisti e le criticità dell'industria discografica

Ora o mai più.

Ogni maledetta sera dell’Happy Endings Tour, Shirley Manson lancia il suo grido d’allarme contro “il grande furto organizzato dell’industria” nei confronti dei musicisti.

Quelli giovani, “che guadagnano una media di 12 dollari al mese, e che si tengono stretti diversi altri lavori per mantenersi, perché le piattaforme pagano le case discografiche, il merchandising, Ticketmaster: tutti ma non loro”.

E che sia chiaro: la frontwoman dei Garbage non si lagna per l’ultratrentennale carriera della band, giunta all’ultimo round di concerti in America prima di una breve stringa di altri live nel resto del mondo.

La sua è la lucida analisi di un sistema che non funziona più, e che falcidierà spietatamente “generazioni di artisti di culto, coraggiosi, creativi, avventurosi”.

Il pubblico perderà “gli eccentrici, i ribelli, i provocatori, gli agitatori”.

Perché se persino per i Garbage non è profittevole esibirsi in location lontane dalla West e East Coast o nelle grandi città, la realtà della filiera musicale è più critica di quanto si possa immaginare.

“Non è autocommiserazione la nostra, non ci lamentiamo, abbiamo avuto una carriera gloriosa e questa è la nostra ultima tournée da headliner”.

Il discorso di di Shirley Manson 

Ma prima di cominciare questi show, il suo speech – divenuto virale sui social - è un invito alla mobilitazione, alla presa d’atto di un raggiro istituzionalizzato; è una chiamata per chi verrà tagliato fuori dalla giostra miliardaria di un impresariato rapace e di una dittatura spotifyiana che operano ai confini dello strozzinaggio.

“Non esistono organi governativi o sindacati del cazzo veramente operativi che possano lottare affinché i giovani musicisti vengano pagati. Dormono in furgoni, buttano l’anima sul palco, si fanno il mazzo quando non suonano e non riescono a vendere neppure un disco, mentre quegli stronzi ricconi delle piattaforme si prendono il frutto del loro lavoro”. 

Una soluzione-tampone è quella di comprare più vinili, smettendo di foraggiare la tirannia delle strettoie virtuali che ti riconoscono non più di qualche millesimo di centesimo per streaming.

“Uno vede tutte queste grandi popstar che fanno miliardi su miliardi di dollari, e sono glamour. Ma la maggior parte del settore non è fatto di grandi popstar, bensì di ragazzi che si rimboccano le maniche”.


Una foto demoralizzante

La foto è demoralizzante, ma incontestabile in ogni dettaglio.

In America, ovunque nel mondo e certamente in Italia sta rapidamente sparendo la zona intermedia tra quelli che vengono tirati a bordo da management privi di scrupoli, con obiettivo stadi e sold-out sospetti, e gli altri che vengono gettati in mare, perché non sono carne da illusione superpop.

I musicisti “di mezzo” non ce la possono fare a investire sul proprio talento: uno dopo l’altro alzano la mano e si predispongono alla resa.

Denunciano problemi personali, crack di salute mentale, patologie sparse e solo pochi (l’ultimo caso è quello del rapper Anastasio) hanno il fegato di dire la verità: “Se non vendo biglietti è giocoforza annullare le date”.

I ricavi sui dischi fisici? Già da anni sono briciole: gli album forniscono il repertorio per i concerti, ma la logica dello stream invoglia il fan a concentrarsi su una singola canzone, non su progetti più ampi. E la bolla dei costi gonfiati del carrozzone che mantiene operative le superstar è destinata a scoppiare da un momento all’altro.


Biglietti dei concerti troppo economici

Il peggio deve ancora venire: Michael Rapino, potentissimo CEO di Live Nation, la superlobby dei tour rock e pop, ha dichiarato che se, ed è tragicamente vero, “il 98 per cento degli introiti dei musicisti deriva dai loro show”, ormai i costi e gli investimenti per organizzarli “si sono drasticamente alzati”. E che, attenzione, i biglietti vengono venduti a un prezzo inferiore al loro reale valore. 

Con un paragone che neanche uno squalo avrebbe azzardato proporre, Rapino ha sostenuto in tv – “scherzando”, ha giurato – che se per i grandi eventi sportivi come la NBA “è quasi un punto d’onore spendere 80mila dollari per un posto a bordo campo non capisco perché io debba essere picchiato se chiediamo 800 dollari per Beyoncé. C’è molta strada da fare”.

Dunque, i concerti sono tuttora “underpriced”, almeno in America, dove si annunciano altri salassi all’orizzonte. E Live Nation, attraverso le sue consociate, partecipa del controllo dei biglietti dei concerti nel resto del mondo. Se Spotify ti paga una miseria, e se non sei una superstar da vendere a peso d’oro al pubblico degli stadi, puoi riporre la tua chitarra nella custodia. Il tuo sogno sprofonda nelle sabbie mobili in cui è finita la musica degli Anni Venti.

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