Recensioni

Eric Clapton: dalle origini al capolavoro SLOWHAND

A placeholder image for the article
Author image Gianni Rojatti

25 novembre 2025 alle ore 10:09, agg. alle 11:55

Clapton, tornato a fuoco dopo anni bui, doma il virtuosismo, affina il suono e mette la chitarra al servizio delle canzoni. Nasce il capolavoro SLOWHAND.

Pubblicato il 25 novembre del 1977, SLOWHAND rappresenta uno dei vertici assoluti della carriera di Eric Clapton. È il disco della maturità piena, della lucidità ritrovata dopo gli anni bui di dipendenze e smarrimento, l’album in cui il bluesman inglese trova finalmente un equilibrio tra identità, gusto e consapevolezza artistica.

Qui Clapton riesce a contenere la furia virtuosistica e la psichedelia degli esordi e dei Cream, senza perderne la forza espressiva, mettendo la chitarra ancora più al servizio delle canzoni. Si apre come cantante, cresce come songwriter e definisce una poetica nuova: essenziale, elegante, definitiva.

Le origini, la fama, gli anni bui

Quando nel 1977 Eric Clapton pubblica SLOWHAND, si capisce subito che non è soltanto un altro disco: è il punto in cui un artista che ha attraversato gloria, smarrimento, dipendenze ed eccessi trova finalmente una forma artistica matura, stabile, lucida. È il suo album più popolare a livello commerciale, quello che contiene “Cocaine”, “Wonderful Tonight” e “Lay Down Sally”, ma soprattutto è il disco in cui Clapton metabolizza tutto il suo passato — il blues, il rock, il pop, la ballad — e li rimette in circolo con un equilibrio che prima non aveva. È musica talmente solida da risultare difficile da incasellare. E, cosa ancora più interessante, è un album che resta impermeabile al terremoto punk del ’77: mentre il mondo spinge verso urgenza, volume, distorsione e rottura, Clapton rilancia con un disco elegante, misurato, pieno di songwriting e suono. Per capire come ci arrivi, bisogna guardare alla storia enorme, e spesso disperata, che lo precede. C’è infatti un curioso gioco del destino all’inizio della sua carriera: una sequenza di insuccessi scolastici che spinge Clapton sempre più vicino alla chitarra. Nel 1961 si iscrive alla Kingston School of Art di Londra, ma nel giro di pochi mesi lo cacciano perché passa più tempo a cercare sulla sei corde la voce del blues — quella dei dischi di Robert Johnson, Muddy Waters, John Lee Hooker — che a studiare. Mentre abbandona la scuola, finisce a suonare per strada e perfino ad aiutare il patrigno carpentiere. Intanto, c’è un altro ragazzo fissato con la chitarra, Anthony “Top” Topham, che a scuola - anche lui - è un disastro. Così, i genitori lo obbligano a lasciare la band in cui suona per “mettere la testa sui libri”. Quella band sono gli Yardbirds. E il posto vacante lo prende proprio Clapton. Gli Yardbirds diventeranno la scuola di alta formazione della chitarra rock: da quella line-up passeranno anche Jeff Beck e Jimmy Page. Ma per Clapton quel contesto dura poco: il taglio commerciale del gruppo lo soffoca, lui è un purista assoluto del blues, e se ne va. È nei Bluesbreakers di John Mayall che Clapton esplode davvero. Lì nasce la sua leggenda, al punto che sui muri della metropolitana di Londra qualcuno scrive “Clapton Is God”. È il 1966, e i tempi sono maturi per la sua fase più eroica: i Cream, super-gruppo con Ginger Baker alla batteria e Jack Bruce al basso. Con loro Clapton prende tutto il linguaggio del blues e lo spinge in avanti: intensità rock, attitudine psichedelica, veemenza sonora ed esecutiva. La sua cover di “Crossroads” di Robert Johnson è un manifesto: radici delta blues sotto, sopra la furia di un rocker evoluto e strafottente. Clapton suona come un diavolo e ha un suono che uccide. Nei cinque anni che vanno dal 1963 al 1968 Clapton compie una sintesi così profonda tra blues e rock da diventare un riferimento per chiunque, da quel momento in poi, imbraccerà una chitarra. Jeff Beck, Jimmy Page… persino Jimi Hendrix! Tutti guardano a lui. Poi arrivano gli anni neri. Le dipendenze lo travolgono. La morte di Hendrix nel 1970 lo devasta. Clapton sprofonda.


La rinascita di 461 OCEAN BOULEVARD

Bisogna aspettare il 1974 perché riemerga, sia artisticamente che mentalmente, con 461 OCEAN BOULEVARD. Al collo non ha più una chitarra Gibson, ma una Fender Stratocaster costruita da lui: la sua celeberrima Stratocaster nera “Blackie” è infatti un Frankenstein assemblato dai pezzi migliori di alcune Stratocaster degli anni ’50 comprate dal chitarrista. La Stratocaster, più versatile, leggera e delicata nel suono, flessibile e meno propensa a distorsioni esagerate, è la compagna perfetta per una nuova fase della sua vita musicale. 461 OCEAN BOULEVARD non è soltanto una rinascita: è un cambio di paradigma. Clapton non è più solo la divinità chitarristica dei Cream. È un cantante più maturo, un musicista capace di attraversare generi, atmosfere, influenze diverse. Il blues si apre alle ballad, a un rock più rilassato, perfino al pop. In scaletta c’è “I Shot the Sheriff”, reggae puro, e diventa uno dei suoi brani più celebri. La Stratocaster gli permette un linguaggio più morbido: meno irruenza, più respiro, più spazio agli arrangiamenti. Anche perché, dopo anni di eccessi, Clapton sente di essere non al massimo della sua forma tecnica chitarristica e retrocede la chitarra in un ruolo meno invadente ma più raffinato. Gli assolo interminabili dei Cream diventano frasi blues melodiche, dosate, a incastro perfetto dentro strutture più ampie. Complice anche la sua inclinazione al funky-soul, la Stratocaster scivola sui groove con un’eleganza inedita e moderna.


Dentro SLOWHAND

È dentro queste coordinate che maturano le basi di SLOWHAND. Un disco che porta a compimento tutto ciò che Clapton ha elaborato dal ’74 in poi: equilibrio, melodia, un’idea di chitarra che non deve più dimostrare niente. SLOWHAND diventa imprescindibile perché mette a fuoco la piena maturità di un musicista che ha attraversato mondi diversi senza smarrire la propria identità. I fan vorrebbero assolo fiume, ma qui sono rari, calibrati. Il suono è vellutato, gli arrangiamenti respirano, e questa scelta — così distante dall’aggressività del punk che sta incendiando il ’77 — dimostra che il talento vero può concedersi il lusso di ignorare le mode del momento. SLOWHAND si apre con una dichiarazione d’intenti travestita da cover: “Cocaine” di J.J. Cale. Clapton la porta nel suo mondo con un piglio asciutto, quasi sornione, trasformando un brano già iconico in un inno contro la dipendenza che lui conosce fin troppo bene. Il testo resta ambiguo, certo, ma negli anni Clapton ha sempre chiarito che il messaggio è tutt’altro che celebrativo: è una denuncia dal punto di vista di chi quel baratro l’ha guardato negli occhi. La seconda traccia è un monumento apparente alla semplicità, perché è l'apice di eleganza e songwriting di Clapton: “Wonderful Tonight”. È la prova definitiva che Clapton, quando decide di giocare sul piano delle “poche note ma con il cuore”, può farti piangere. Inoltre, l’aneddoto sulla storia dietro la canzone merita una riga in più: una sera, Clapton e Pattie Boyd — modella britannica, musa dei Beatles, ex moglie di George Harrison e poi compagna di Clapton — stanno per andare a un concerto di Paul McCartney alla Wembley Arena. Pattie si sta preparando, con la calma di chi vuole sentirsi perfetta; Clapton aspetta, osserva, e mentre aspetta prende la chitarra. Quell’attesa diventa un arpeggio, poi una melodia, poi le parole esatte che immortalano le sfumature di quel rapporto. Una scena domestica trasformata in una delle ballad più celebri della storia del rock. Poi c’è “Lay Down Sally”, un pezzo country-soul costruito sul groove in levare della band di Tulsa, i musicisti che in quegli anni affiancano Clapton con un feeling tutto americano. È lo stesso respiro che ritroviamo nella più morbida “Next Time You See Her” e nella splendida “May You Never”, scritta da John Martyn: qui Clapton si mette completamente al servizio della canzone, senza bisogno di strafare. “We’re All the Way” porta il disco su un terreno quasi folk, mentre “The Core” — insieme alla bluesy “Mean Old Frisco” — riallaccia il filo con il Clapton più sanguigno, quello che non ha mai abbandonato del tutto la sua matrice blues-rock. Sono brani meno immediati dei singoli, ma essenziali per capire l’equilibrio di SLOWHAND. La chiusura è affidata a “Peaches and Diesel”, una strumentale malinconica e luminosa allo stesso tempo, con una Stratocaster che incanta: frasi brevi, scelte, emozionanti nel tocco, nel suono, nel vibrato elegantissimo. La produzione di Glyn Johns — uno che aveva lavorato con Led Zeppelin, Who e Rolling Stones — è garbata e trasparente. È il primo disco solista di Clapton registrato in Inghilterra, e si sente: c’è un mix di radici americane e senso della misura molto british. E già che parliamo di SLOWHAND, vale la pena smontare una leggenda che gira da decenni: l’idea che il soprannome "mano lenta" derivi dal fatto che Clapton “suonasse lento”, o che fosse un chitarrista che rifiutava la tecnica e la velocità. Non è così: basta ascoltare Clapton, giovane e scalmanato con i Cream o certi live degli anni d’oro per rendersi conto che definirlo “manolenta” è - a meno che non lo si faccia ironicamente - una barzelletta. Il nickname nasce da tutt’altro: nei concerti dei Cream a Eric Clapton capitava spesso (tale era la foga con cui strapazzava la chitarra) di rompere una corda. Lui se la cambiava da solo, sul palco, mentre il pubblico scalpitava. E lo faceva con una calma esasperante, godendosi l’attesa. Quel gesto — quella lentezza ostentata mentre la platea batteva le mani per farlo ripartire — gli valse il nome “Slowhand”.


Altre storie

Leggi anche