Elogio di Meg White, batterista essenziale e fondamentale
10 dicembre 2025 alle ore 14:32, agg. alle 18:05
Nell'anno in cui The White Stripes entrano nella Rock'n'Roll Hall Of Fame è fondamentale ricordare il talento musicale di Meg White, batterista al servizio delle canzoni
Nel corso degli anni, una figura del rock è spesso rimasta nell’ombra — e quel nome è Meg White. Mentre il suo storico compagno sul palco, Jack White, continua a dominare l’attenzione mediatica con nuove avventure musicali, lei è scomparsa dai radar, fedele al suo carattere riservato.
The White Stripes sono stati da poco inseriti nella Rock & Roll Hall Of Fame alla prima tornata utile, a 20 anni da "Get Behind Me Satan", a 25 dal debutto con "De Stijil", ma Meg White è rimasta nell'ombra.
Una scelta personale e rispettabile ma che, in qualche modo, non le ha permesso - qualora ci fosse bisogno - di 'difendersi' da un mondo social che 25 anni fa non esisteva e che oggi permette a tutti di sparare a zero sulle capacità e sul talento di tutti.
Meg White: primordiale, essenziale ma fondamentale
Eppure, oggi come ieri, è proprio la sua batteria — semplice, primordiale, essenziale — che mantiene intatto il suono caratteristico che ha definito i White Stripes. In un anno cruciale come questo, celebrarne l’importanza non è una sacrosanta riconferma del valore di chi ha definito un’epoca.
Meg White non era (e non è) una batterista virtuosa nel senso tradizionale del termine. Non cercava i fill virtuosistici, non faceva sfoggio di velocità o tecnicismi: suonava con misura, con gusto, con un rispetto quasi rituale per lo spazio tra i colpi. Un approccio che molti critici e musicisti nel tempo hanno capito essere il segreto, o comunque una delle chiavi, del successo della band.
Quando qualcuno l’ha definita “terribile”, il dibattito si è riacceso: ma anche nel 2023, Questlove e tanti altri si sono schierati in sua difesa, sottolineando come quell’“imperfezione” fosse in realtà una scelta artistica.
Un’ombra necessaria: la riservatezza di Meg e la sua scelta di scomparire
Dopo lo scioglimento dei White Stripes, Meg White — già nota per la sua proverbiale riservatezza — ha scelto di uscire di scena. Problemi di ansia, un desiderio di normalità, e la consapevolezza che la sua vita privata non coincideva con la vita da star.
Chiara la sua scelta: non più palchi, non più tour, non più luci.
Questa ritrosia a restare sotto i riflettori ha fatto sì che, nonostante la sua centralità nella musica dei White Stripes, il suo nome restasse spesso nascosto, sottovalutato o addirittura ignorato — soprattutto da chi valuta un batterista solo in base alla velocità o alla tecnica. Eppure, come tanti hanno fatto notare, ridurre Meg a “mancanza di tecnica” è ignorare il vero valore della musica dei White Stripes.
Il fatto che oggi, con l’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame, si torni a parlare di lei — magari con toni nuovi, più attenti — è un piccolo segno di giustizia storica.
Cinque canzoni che dimostrano quanto il suono dei White Stripes dovesse tutto (o quasi) a Meg White
Artisti come Alison Mosshart dei The Kills e Matt Helders degli Arctic Monkeys hanno più volte dichiarato come l’uso dello spazio e la precisione emotiva del drumming di Meg abbiano influenzato il loro modo di suonare.
Questlove dei The Roots ha elogiato la sua capacità di servire la canzone prima della propria esibizione personale, definendola un modello di musicalità pura. Anche band garage e indie rock nate negli anni 2000, dal revival del garage rock americano al post-punk contemporaneo, hanno citato Meg White come esempio di come poche note possano creare tensione, dinamismo e identità sonora
Ecco cinque tracce emblematiche che mostrano come lo stile di Meg non fosse complemento, ma struttura — a volte il cuore pulsante — delle canzoni.
Hello Operator
Una delle prime tracce del duo. La batteria è semplice, un backbeat che pulsa costante, quasi infantile nella sua ingenua ripetizione. Eppure quell’innocenza ritmica lascia la chitarra di Jack libera di urlare, ribaltare, graffiare — creando un contrasto potente, diretto, primitivo. È come se la batteria fosse il battito regolare di un cuore sotto assedio: minimalista, ma già essenziale.
Dead Leaves and the Dirty Ground
Qui, la spiegazione del perché Meg fosse fondamentale viene da sola. Il riff sporco e cupo, la voce roca, ma è la batteria primordiale, il groove drammatico e costante, a dare peso, profondità e gravità al brano. Senza quella camminata minimale ma pulsante, il pezzo perderebbe la sua potenza viscerale.
The Hardest Button to Button
Un beat martellante, quasi metronomico — ipnotico. Qui la batteria non è solo accompagnamento: stabilisce il ritmo interno, costruisce un ponte ritmico tra strofe e ritornelli, scandisce una tensione crescente. Eppure Meg non cerca la complessità: lavora sul contrasto, sulla ripetizione, sulla crudezza calcolata.
Icky Thump
Brano finale della discografia ufficiale, segnato da cambi di ritmo, esplosioni garage‑rock, richiami blues e punte di psichedelia. In tutto questo caos controllato, la batteria di Meg resta salda, fonde minimalismo e dinamismo, traccia la base e risponde ai cambiamenti con una naturalezza sorprendente. Quel suono grezzo ma calibrato conferma una volta di più che la tecnica non è tutto — serve sensibilità, istinto, gusto.
Black Math
Poco conosciuta quanto potente, “Black Math” è l’epitome del dinamismo suonato con poche note. La chitarra convulsa, i cambi di tempo, le esplosioni ritmiche vengono tenute insieme da una batteria che non accetta compromessi: un ritmo deciso, primitivo, nero — che parcheggia la tecnica e abbraccia l’istinto. In questo brano, Meg non accompagna: comanda.