David Coverdale, 1987 e l’apice degli Whitesnake
22 settembre 2025 alle ore 14:59, agg. alle 17:22
Celebriamo David Coverdale con 1987 degli Whitesnake, album che fotografa un decennio: una delle istantanee più riuscite dell’hard rock, tra melodia e potenza
Nato il 22 settembre 1951, David Coverdale è una delle voci più rappresentative e amate dell’hard rock: potente, sensuale e immediatamente riconoscibile. Dopo l’esperienza con i Deep Purple negli anni ’70, con cui ha inciso capolavori come BURN (1974), ha dato vita agli Whitesnake, plasmando un suono capace di unire blues, hard rock e melodia.
Nel corso di una carriera lunga e ricca di svolte, Coverdale ha firmato dischi memorabili, incluso il raffinato progetto con Jimmy Page negli anni ’90, COVERDALE PAGE (1993). Oggi lo celebriamo con una retrospettiva su 1987 dei suoi Whitesnake, uno dei lavori più amati e discussi della sua carriera, vera pietra miliare dell’hard rock.
1987: tradizione e modernità
Nel celebrare una voce incredibile dell’hard rock, una delle più amate e riconoscibili, non possiamo che guardare a 1987, il disco che consacrò David Coverdale e gli Whitesnake come fenomeno planetario. Un album che resta tra i successi commerciali maggiori della sua carriera e che ancora oggi divide: c’è chi gli rimprovera l’abbandono di una tempra artistica più genuina, blues e rock, che Coverdale aveva sfoggiato agli esordi della band e - prima ancora - in lavori indimenticabili come BURN con i Deep Purple o, successivamente, nel raffinato progetto con Jimmy Page. Ma 1987 è, senza ombra di dubbio, un capolavoro dell’hard rock e, soprattutto, l’album che mette in bella copia – o se vogliamo esaspera – tanti tratti di un modo di fare rock che ha definito un intero decennio. Il contesto storico non è secondario. Il 1987 è l’anno in cui il mondo del rock vede nascere dischi monumentali come APPETITE FOR DESTRUCTION dei Guns N’ Roses o GIRLS, GIRLS, GIRLS dei Mötley Crüe. Album che incarnano, rispettivamente, la modernità ruvida e veemente del punk contaminato con l’hard rock e l’edonismo sfrenato della scena glam losangelina. In questo scenario, gli Whitesnake rappresentarono un’oasi rassicurante per gli amanti del rock più tradizionale.
Ma non fu un rifugiarsi nel passato: Coverdale seppe offrire un hard rock autentico, rispettoso della tradizione, ma declinato con un suono e un songwriting capaci di parlare al presente. Un equilibrio che deve moltissimo a John Sykes: le sue chitarre, potenti e modernissime, garantirono contemporaneità e freschezza, evitando che 1987 suonasse come un’operazione nostalgica. Dietro la nascita del disco c’è la visione di David Coverdale, artista inglese volitivo, determinato a conquistare il mercato americano. Coverdale aveva già fiutato la direzione con SLIDE IT IN (1984), ma con 1987 decise di rompere definitivamente con il suono più tradizionale e le radici blues, per abbracciare un rock scintillante, costruito su melodie radiofoniche, virtuosismi di chitarra e produzioni patinate. Fondamentale in questa metamorfosi fu Sykes, vero alter ego creativo di Coverdale, chitarrista di grande spessore che sarebbe riduttivo accostare ai virtuosi più circensi dell’hard rock. Sykes firmò riff incredibili, perfettamente bilanciati tra groove, orecchiabilità e suoni modernissimi, e regalò assolo spettacolari che, pur ostentando tecnica e velocità, restavano sempre melodici e al servizio della canzone. All’epoca la formazione che entrò in studio era di altissimo livello: David Coverdale alla voce; John Sykes alla chitarra; Neil Murray, bassista che aveva già collaborato con Gary Moore, Black Sabbath e Brian May; con loro, una leggenda della batteria, Aynsley Dunbar reduce da esperienze con Frank Zappa, Lou Reed, David Bowie, Journey e Jefferson Starship. Alle tastiere il contributo di Don Airey e Bill Cuomo, mentre Adrian Vandenberg fu chiamato per registrare l’assolo di “Here I Go Again” nella versione rivisitata.
Il DNA degli anni '80
1987 è un album costruito per il successo. Ha canzoni efficaci, potenti e ruffiane; arrangiamenti killer; tecnica sopraffina che non si traduce in virtuosismi fini a sé stessi, ma in una coesione e una pulizia di suono spettacolari. I riff di chitarra all’unisono con la batteria di “Still of the Night” tolgono letteralmente il fiato. La produzione è di lusso: ambienti, mix e resa sonora allo stato dell’arte. “Still of the Night” è l’emblema di questa formula vincente. Un brano intriso di riferimenti zeppeliniani, dichiarazione d’amore a Page e soci, fino al gesto volutamente citazionista del video in cui la chitarra viene suonata con l’archetto del violino. È esasperata, teatrale, eppure irresistibile. “Give Me All Your Love” è invece la hit scritta per spopolare nelle classifiche: impossibile non cantarla a squarciagola al volante, finestrini abbassati e volume al massimo. “Crying in the Rain”, remake da SAINTS AND SINNERS (1982), conferma che una grande canzone resta tale anche cambiandole pelle: qui perde la veste bluesy per indossare chitarre metal e un assolo di John Sykes da mascella spalancata, roba che mette in riga qualsiasi guitar hero. Poi c’è lei, “Is This Love”: la ballad quasi per antonomasia, originariamente pensata per Tina Turner. La curiosità resta, ma il rock può solo ringraziare che Coverdale se la sia tenuta. Indimenticabile il contrasto tra la pulsazione enorme e riverberata di basso e batteria e quegli arpeggi di chitarra elettrica, gelidi, cristallini, marchiati da chorus e delay: puro DNA da anni ’80.