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Da John Bonham a Dave Grohl, come è cambiato il ruolo del batterista?

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Author image Doctor Mann

25 settembre 2025 alle ore 12:00, agg. alle 12:31

Dieci anni dopo la morte del leggendario batterista dei Led Zeppelin, i Nirvana ingaggiavano Dave Grohl, forse l'ultimo batterista fondamentale

Aveva già accusato un malore sul palco di Norimberga, il 27 giugno di quel maledetto 1980. Nel bel mezzo di “Black Dog”, terza canzone in scaletta, Bonzo crollò di schianto sulla batteria e dovette essere trasportato d’urgenza in ospedale. Un’intossicazione alimentare, ok, ma pure una classica esagerazione delle sue. Si era mangiato 27 banane prima dello show, in quel tour europeo in cui i Led Zeppelin cercavano disperatamente di aggrapparsi ai lembi della propria leggenda.

Rimesso in piedi Bonham, l’America li avrebbe attesi al varco in autunno. Ma all’alba del 25 settembre John Paul Jones e il nuovo road manager Benji LeFevre rinvennero John privo di vita, soffocato dal suo stesso vomito, in un letto della villa di Jimmy Page, a Windsor.

Le prove della sera prima si erano rivelate un disastro, Bonzo era uno straccio, e i 40 shots di vodka in 4 ore non gli garantirono l’ennesimo bonus per salvarsi la pelle.

Il motore del dirigibile si spegneva di colpo, a 32 anni, dopo un’esistenza bruciata con tre passioni: le pelli dei suoi tamburi, la quiete familiare, e l’alcol, il demone contro cui non riusciva a combattere.

Potevi chiedere a Bonzo di suonare il drum kit a mani nude – piatti compresi – come nel furente, interminabile assolo live su “Moby Dick”, ma non dovevi azzardarti a togliergli il bicchiere dal tavolo.

A nulla era valso l'esempio nefasto di Keith Moon, crepato due anni prima per le troppe bottiglie buttate giù nella strozza, che erano benzina per il rock però diventavano veleno nel suo fegato.

Quanto a John, c’era pure da contenere l’ebbrezza per la velocità in moto e dove guidarle: non sempre inforcava il manubrio in strada. Come quella volta che arrivò sgassando dentro la hall di un albergo a Los Angeles, facendosi portare il suo cavallo d’acciaio su fino al sesto piano, dove zigzagava nei corridoi, e all’occasione impennava.


Il rispetto dei Led Zeppelin

Caso unico nella storia del r’n’r, alla morte di Bonham gli Zep si consegnarono al passato. In quel comunicato del dicembre ’80 sottolineavano come la loro non fosse solo una band, ma un sodalizio dannatamente umano: "Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere, in piena armonia tra noi e il nostro manager, che non possiamo più continuare come eravamo”.

Ci avrebbero provato solo in rare circostanze, per apparizioni episodiche: tra le altre, il disastro del miniset a Philadelphia il giorno del Live Aid, con le bacchette impugnate da un Phil Collins intronato dal viaggio transatlantico in Concorde; e il vero addio del 2007, la serata one-shot alla Wembley Arena, con Jason Bonham a ereditare il ruolo del padre.

L’esempio dei Led Zeppelin, nel rock-biz, appare quasi una scelta virtuosa, o forse era solo un cerchio che si chiudeva, impossibile da riaprire con altri drummer.

Diversamente dagli Who, che non hanno onorato a fondo il lutto per Moon, continuando il lavoro on stage fino ad oggi, arrivando a licenziare dopo anni di onorata collaborazione Zak Starkey, il figlio di Ringo, che proprio scarso non è.



Quanto vale la figura del batterista oggi?

Ma in questi incroci genealogici si può anche scavare dentro una suggestione: quanto vale il batterista “moderno” (dalla metà degli anni ’60 in poi) nella distribuzione di carichi e fortune in un gruppo?

Lo stesso Ringo e Charlie Watts ci hanno insegnato che lavorare “per sottrazione” alla batteria è altrettanto decisivo quanto agire da mazzieri fracassoni, acrobati e istrioni.

Collins, finché la salute glielo ha consentito (e anche lì, la dinastia è continuata con i suoi ragazzi), ha dimostrato con i Genesis che il fabbricante del ritmo è anche quello che offre colori, sfumature, virtuosismo non fine a se stesso, soprattutto nel campo prog, dove hanno operato altri fenomeni di tecnica e musicalità: Carl Palmer, Bill Bruford, Alan White o Neil Peart. I propulsori di EL&P, King Crimson, Yes, Rush.

E nel metal e dintorni, cosa sarebbero stati i Metallica senza Lars Ulrich o i Dream Theather privati di Mike Portnoy? O i Pink Floyd lontani dal pilastro Nick Mason?

La figura che occupa il podio al centro della ribalta è stata, in passato, meritevole di adorazione quanto i frontmen e i chitarristi. Nelle camerette dei rockfan adolescenti non mancava mai il poster del batterista del cuore, emulato percuotendo barattoli o il fustino del detersivo, avvolti nel sogno di prenderne il posto nella band che riempiva arene e stadi.

Pochi ce l’avrebbero fatta: tra questi, per una curiosa congiuntura astrale, il diciottenne Dave Grohl. Che il 25 settembre 1990, esattamente dieci anni dopo la scomparsa di Bonham, fu ingaggiato al volo dai Nirvana.

Cobain e Novoselic erano andati (su suggerimento del chitarrista dei Melvins Buzz Osborne) a valutarlo dal vivo in California, in concerto con i suoi Screams.

Dave disse poi: “Avevo quell’età e tutto quel che desideravo. Sette dollari al giorno, dormivo dove capitava con i miei amici, a ogni data scoprivamo posti nuovi con il furgone”.

Kurt e Krist invitarono Dave a un provino nello studio Dutchman di Seattle.

A metà del primo pezzo – “Sliver” – i due Nirvana si scambiarono uno sguardo eloquente: “È lui il nostro uomo, il batterista dei sogni”.

E Grohl rinunciò ai 7 dollari quotidiani con gli Screams.



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