Bootleg, l'atto "eroico" dei pirati
11 dicembre 2025 alle ore 11:38, agg. alle 12:14
Da dito medio al capitalismo del rock a materiale per d'archivio per i cofanetti delle star: storia dei bootleg e della figura epica del pirata della musica
Avvertivi il sottile, perverso brivido della trasgressione, la meta-ribellione del fan che sovvertiva le regole del capitalismo rock.
Fanculo il business, i manager, gli impresari,gli artisti e pure i poliziotti: immortalare clandestinamente un concerto era una goduria, pubblicarla in qualche forma clandestina diventava un orgasmo, farci dei soldinI pareva un calcio negli zebedei al sistema.
Il bootleg era l’oggetto sacro, la reliquia proibita, la botola aperta nei sotterranei dove solo l’artista e il suo entourage potevano aggirarsi. Tecnica da ladri-spie far girare un nastro nella hall dove si esibivano i tuoi beniamini: era un po’ come togliergli i preziosi dal collo per rivenderli al mercato dei collezionisti.
Un puro piacere dell’atto - commettere un reato in pubblico - cercando di non farsi beccare dai controllori: magari te ne stavi lì ad applaudire, con l’aria più innocente del mondo, e ti sentivi un Lupin, oltre che un Robin Hood che avrebbe dato ai poveri assenti quel che i ricchi del team delle star volevano negar loro.
Eri l’inviato speciale degli idolatri, un agente segreto in missione per conto della musica che cambiava la vita.
La leggenda di Mike Millard
Portare dentro la sala dello show un registratore, negli anni 70 e 80, era come cercare di far passare una valigia al plutonio al metal detector.
Eppure qualcuno ci riusciva, come il leggendario Mike Millard. Ci si ricorda di lui, in questi giorni, per l’uscita del box del cinquantennale di ‘Wish you were here’, che comprende l’incisione, all’epoca non autorizzata, fatta proprio da Millard alla Sports Arena di LA nell’aprile 1975.
L’intero set. I Pink Floyd, non avevano pensato di dare alle stampe un documento ufficiale di quel tour: troppe complicazioni al mixer e nessun interesse strategico.
Così ci pensò Mike, che entrò nella location su una sedia a rotelle, e sotto il cuscino piazzò il mastodontico Nakamichi, mentre dal suo cappello spuntavano i due microfoni direzionali.
Non era paraplegico, Millard, però confidava che il suo trucco lo avrebbe agevolato. E così fu.
La sua impresa da lestofante, limpida nel suono, è finita ora sul cofanetto floydiano: reperto di un’epoca pioneristica, avventurosa, romantica, dove il bootleg spalancava un multiverso performativo, e segnava come una pietra miliare i percorsi delle discografie alternative.
L'eroica epopea dei bootlegger
Il “pirata” era un eroe: correva un rischio personale, perché se fosse stato scoperto in flagranza di reato sarebbe finito lui, dietro le sbarre. E si sacrificava in nome di tutti i suoi consimili impossibilitati a presenziare all’evento.
Occhio: oltre al filone dei bootleg “assoluti”, il cui controllo era sfuggito di mano ai collaboratori del musicista, esisteva quello dei dischi estemporanei, che erano chance tattiche per la promozione.
Se concedevi a una radio FM di trasmettere in diretta integrale la serata, lo facevi per ampliare il tuo pubblico potenziale.
La sensazionale tournée americana di Springsteen del 1978 ne confermò l’inimmaginabile valore di performer sul palco proprio grazie ai bootleg (“Pièce de résistance” su tutti, ma anche “Live at the Roxy”) che confermavano la potenza espressiva del giovane Bruce.
Il "pusher" di Oxford Street
Cercare quei vinili era un’avventura da carbonari, pochi negozianti si azzardavano ad esporli negli scaffali dove si vendevano gli LP ufficiali. Chi scrive ricorda un “pusher” di album di Oxford Street, nel cuore di Londra.
Se ne catturavi la fiducia alla terza volta che ti vedeva entrare toglieva un pannello nel controsoffitto e ne estraeva tesori inestimabili, che facevi tuoi a caro prezzo, magari solo per una canzone inedita, dall’audio rozzo, catturata da aggeggi improbabili, walkman dentro un cappotto davanti al palco.
C’erano poi gli stand improvvisati nel mercatino di Portobello, dove oltre a 33 e 45 giri bootleg trovavi le audiocassette artigianali dei live di praticamente chiunque avesse suonato nel Regno Unito.
Ma erano già gli anni Ottanta, all’orizzonte (più o meno quando i Pearl Jam rendevano disponibili dopo ogni data i live dei loro concerti) si intravedeva il crepuscolo dei pirati. Che non agivano solo in transenna, ma spesso e volentieri avevano complici negli studi.
I bootleg delle sale di incisioni erano un altro step verso l’ignoto.
Nel ‘69 qualcuno aveva confezionato il primo fra questi, il leggendario “Great White Wonder” di Bob Dylan, uno scampolo dei “Basement Tapes” con The Band di un paio di anni prima. Nel “Kum Back” dei Beatles (qui c’entrava il loro tecnico Glyn Johns) trovavi addirittura l’acetato dei missaggi provvisori dei pezzi che sarebbero finiti su “Let it be”.
Quando gli artisti legittimano i bootleg
E il “Black album” di Prince? Nacque illegittimo, divenne bastardo. Una bibbia del funk che il folletto di Minneapolis decise di non pubblicare quando già le copie promozionali erano state distribuite: un ripensamento che non impedì la diffusione sottobanco, per rarissimi esemplari di quel capolavoro ripudiato, finché lo stesso Prince, anni dopo, non si risolse per restituire luce e audience al Disco Nero.
Sfortunati, come altre band, gli U2: un bootlegger si piazzò sotto una finestra della casa di Bono a Cannes e catturò il sound di “Vertigo” e della prima versione di “How to dismantle an atomic bomb”, che presero a circolare in rete, mettendo sotto scacco gli irlandesi.
Il bootleg, insomma, era l’arma per la presa del potere dal basso, la tecnocrazia popolare che si faceva beffe delle strategie della grande industria musicale.
Pian piano, con l’avvento di YouTube e dei social, i pirati hanno ceduto il passo agli onnivori degli smartphone, che non si godono il concerto ma pensano solo a portarselo a casa.
Un’ossessione pandemica, universale, che ha tolto ogni poesia alla rapina dei bootlegger.
Anche perché, nell’imbesuimento digitale, sono ormai gli stessi artisti a saccheggiare i propri archivi, sfornando “serie” discografiche fatte di inediti, outtakes, versioni alternative.
E vecchi live, come quello dei Pink Floyd che onora la memoria del brigante Mike Millard.