APPETITE FOR DESTRUCTION: l’hard rock bastardo dei GNR, figlio di punk e blues
13 luglio 2025 alle ore 21:31, agg. alle 11:09
Il disco che consacra i Guns e uccide gli anni ’80: hard rock bastardo, figlio di punk e blues, vissuto da cinque sbandati destinati alla leggenda.
APPETITE FOR DESTRUCTION, pubblicato il 21 luglio 1987, non è solo il primo album dei Guns N’ Roses: è il più importante della loro carriera, quello che da solo li consegna alla storia del rock. Una vetta creativa che non verrà mai più superata.
Ma è anche molto di più. È il manifesto di una rivoluzione musicale che taglia i ponti con gli anni ’80, creando un nuovo hard rock bastardo nato dall’accoppiamento stupefacente tra punk e blues, che anticipa a livello seminale la prossima rivoluzione grunge. Un hard rock nuovo, espressione non di un esercizio di stile o sperimentazione, ma del mettere in musica l'attitudine maledetta di cinque sbandati, geni musicali.
Sesso, droga & rock'n'roll
Raramente nella storia del rock c’è stato un esordio così potente, feroce e già pienamente compiuto. APPETITE FOR DESTRUCTION è un debutto accostabile, per impatto e consapevolezza stilistica, a quello dei Doors, dei Sex Pistols… e sì, anche a quello di Jimi Hendrix. Per quanto pregevole e ambizioso sia stato il doppio album successivo USE YOUR ILLUSION (1991), i Guns N’ Roses si sono conquistati un posto nella storia del rock grazie unicamente a questo disco. APPETITE FOR DESTRUCTION resta la loro testimonianza più autentica, ispirata e universalmente riconosciuta. Spesso associato all’immaginario rock e metal degli anni ’80, questo disco rappresentava in realtà una cesura netta rispetto ai trend dominanti di quel decennio. Da un lato c’erano l’hard rock e il metal spinti verso un tecnicismo esasperato e una produzione iper-tecnologica — dai Metallica ai Megadeth, passando per Van Halen, Malmsteen, Judas Priest e le cose soliste di Ozzy. Dall’altro, il versante glam, frivolo e patinato dell’hard rock: Europe, Bon Jovi, Mötley Crüe... In questo scenario, i Guns rispolveravano due anime che allora sembravano dimenticate: il punk e il blues. Due elementi che, uniti alla velocità, alla perizia e all’aggressività assimilata dalla scena heavy di quegli anni, portavano al loro hard rock una sporcizia, una ferocia, un'urgenza straordinarie. Espressione non tanto di una ricerca stilistica, quanto di un’esistenza vissuta ai limiti, autenticamente votata al mito del sesso, droga e rock’n’roll. Anche visivamente i Guns erano qualcosa di nuovo. Si distaccavano sia dai lustrini sgargianti dell’hard rock ottantiano, sia dall’essenzialità dei thrasher (jeans stretti, sneakers e magliette slabbrate). Il loro look era una via di mezzo tra il ricercato e il trasandato, tra lo sfarzoso e il decadente: un immaginario che evocava i Led Zeppelin, Hendrix, i Rolling Stones, e persino — nei dettagli più eccessivi — i New York Dolls. In questo recuperare e contaminare il suono e l'estetica dei ’70 con l’aggressività sonora maturata negli ’80, i Guns hanno tracciato un solco profondissimo. Sono stati, forse inconsapevolmente, un terremoto seminale che anticipava la rivoluzione grunge che sarebbe arrivata solo qualche anno dopo.
Marshall e Les Paul
In tutto questo, il chitarrista solista della band, Slash giocava un ruolo decisivo. Gli anni ’80 sono stati il decennio dei Guitar Hero: virtuosi ispirati a Van Halen e Randy Rhoads come Steve Vai, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen, che avevano portato il culto della chitarra a livelli talmente alti da sfiorare la parodia o il disincanto. Slash, invece, era un chitarrista stupefacente, immediatamente riconoscibile, viscerale ma che restava comunque rock, accessibile. Slash restituiva alla chitarra elettrica un’identità trasgressiva e alla portata di tutti. La chitarra con lui, smetteva di essere un violino in prestito al metal e tornava ad essere suonata tenendola bassa, abbassata quasi alle ginocchia, come facevano i punk in sfregio ai musicisti jazz e prog che la tenevano girocollo per facilitarsi nell’esecuzione di repertori impossibili. E non servivano chitarre futuristiche o strumentazioni faraoniche, come quelle sfoggiate dalle band colossali del periodo: Slash rispolverava la “vecchia” Gibson Les Paul di Jimmy Page, Paul Kossoff dei Free e Steve Jones dei Sex Pistols, e la sparava dritta nel più classico e rumoroso degli amplificatori: un Marshall, enorme e selvaggio, come quello di Jimi Hendrix. Con quella spavalderia e quello scazzo, tra sigarette e Jack Daniel’s, Slash suonava e incantava. Non come tanti solisti rock e metal dell’epoca, che la chitarra la accarezzavano come fosse uno strumento classico, da celebrare con spocchia e distacco da prima ballerina.
Band più pericolosa del mondo
APPETITE FOR DESTRUCTION è, a tutti gli effetti, il manifesto sonoro di questa rivoluzione che i Guns N’ Roses hanno portato nel rock. Registrato nel 1987 con la produzione di Mike Clink, l’album cattura l’urgenza brutale e la chimica esplosiva del quintetto storico: Axl Rose, Slash, Izzy Stradlin, Duff McKagan e Steven Adler. Ma Appetite è anche un disco il cui mito si nutre della cornice turbolenta che lo ha generato. Una sequenza ininterrotta di eccessi, scontri, leggende e colpi di scena che raccontano cinque musicisti ventenni e sbandati, destinati a diventare icone del rock. Non a caso, i Guns si guadagnarono presto il soprannome di “band più pericolosa del mondo”; nessuno voleva lavorare con loro: erano ingestibili, imprevedibili, spesso completamente fuori controllo. I problemi con le droghe erano costanti, i risse nei locali all’ordine del giorno. I manager e i produttori scappavano a gambe levate. Alla fine fu Mike Clink, uno dei pochi con la pazienza e il polso giusto, a prendersi in carico la missione. E ci riuscì: riuscì a incanalare la furia in energia creativa e musicale.
Un buco come sala prove
Nel frattempo, la band viveva alla giornata, spesso nel degrado più assoluto. Durante la registrazione del disco, affittarono una casa che ridussero letteralmente a un campo di battaglia. Il pavimento del bagno era sfondato, i sanitari divelti, i lavandini usati come latrine. C’erano hamburger ammuffiti nei sacchetti sparsi ovunque. Il conto dei danni sfiorò i 22.000 dollari e fu sufficiente per far abbandonare la gestione della band agli allora manager Arnold Stiefel e il suo socio. Ma Slash, da parte sua, nonostante questi eccessi, si prendeva maledettamente sul serio quando c'era da suonare e registrare e si chiudeva in studio per ore a perfezionare i suoi assoli. A un certo punto, esasperato da una Gibson SG che non rispondeva come voleva, la prese e la scagliò contro il finestrino di un furgone. Era un lavoro fatto di istinto, ma anche di ossessione. Una regola, però, veniva rispettata da tutti: in studio niente droghe. Mike Clink fu chiaro fin da subito. Quello era un luogo sacro, e la band lo accettò. “Fuori si faceva casino, ma quando si entrava in studio eravamo concentrati,” ricordò anni dopo Slash. Prima del contratto con la Geffen, i cinque vivevano in un buco usato come sala prove, infestato da topi e senza nemmeno un bagno. Ma in quella sporcizia, tra il tanfo di sudore e Marshall incandescenti, stava prendendo forma uno dei dischi più importanti della storia del rock.