History

All Things Must Pass, il debutto da record di George Harrison

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Author image Gianluigi Riccardo

28 novembre 2025 alle ore 11:50, agg. alle 15:09

Messo in ombra da Lennon-McCartney, George Harrison fu il primo ex Beatles al primo posto con All Things Must Pass, debutto epico e spirituale

Quando George Harrison pubblicò All Things Must Pass nel novembre del 1970, la sua vita professionale e personale era in pieno tumulto creativo.

Reduce dallo scioglimento dei Beatles, Harrison si ritrovò improvvisamente libero da vincoli artistici che per anni avevano limitato il suo spazio all’interno della band.

Per quanto amasse i compagni, è risaputo che spesso si era visto relegato al ruolo di “terzo autore”, dietro l’ingombrante coppia Lennon-McCartney.

Proprio questa frustrazione silenziosa aveva generato un archivio di canzoni mai pubblicate, idee proposte e poi accantonate e riflessioni spirituali che ora, finalmente, potevano trovare voce.

La sua immersione nella filosofia hindu, nella meditazione e nell’insegnamento di Ravi Shankar aveva già trasformato la sua visione del mondo. Ad ampliare questo quadro c’era la sua vita privata: il matrimonio con Pattie Boyd viveva un momento oscillante, e Harrison cercava un equilibrio interiore che solo la musica sembrava in grado di offrirgli. L’album nacque quindi in un’atmosfera di liberazione e profondità, un punto di svolta in cui l’artista non aveva più nulla da dimostrare se non la sincerità della propria ricerca.

All Things Must Pass fu un debutto solista completo e concreto ma, soprattutto, la dimostrazione definitiva che Harrison era un autore maturo, capace di un linguaggio musicale e spirituale altamente personale.

Il contesto storico amplificò l’impatto: il pubblico, orfano dei Beatles, era pronto ad ascoltare nuove voci e nuovi percorsi creativi con Harrison finalmente in grado di prendersi lo spazio sotto i riflettori che meritava.

La trasformazione di All Things Must Pass

Il materiale che costituì All Things Must Pass aveva origini profonde. Molte idee musicali risalivano agli anni finali dei Beatles: brani come “Isn’t It a Pity”, “Beware of Darkness” e la stessa “All Things Must Pass” erano già stati provati o presentati alla band, ma avevano trovato poco spazio.

Harrison usò il suo bagaglio di riflessioni sulla natura della vita, sulla caducità delle cose materiali e sulle complessità delle relazioni per costruire un album intriso di spiritualità, malinconia e speranza.

I temi principali ruotano intorno all’accettazione, al distacco, alla trasformazione. La spiritualità orientale emerge in brani come “My Sweet Lord”, con il celebre mantra “Hare Krishna”, mentre la dimensione più intima e dolente è palpabile in “Wah-Wah”, scritto nei giorni più tesi del periodo beatlesiano.

Harrison non cercò un messaggio politico né un manifesto generazionale: il suo era un viaggio personale che, paradossalmente, parlava a chiunque.


La nascita epica di un debutto

La lavorazione del disco fu altrettanto epica. Harrison si affidò alla mano pesante ma visionaria di Phil Spector, maestro del “Wall of Sound”. Le sessioni presso gli Abbey Road Studios e i Trident Studios videro la partecipazione di un parterre straordinario di musicisti: Eric Clapton e i futuri membri dei Derek and the Dominos, Billy Preston, Gary Wright, Klaus Voormann, Ringo Starr, Alan White.

Il risultato fu un suono denso, stratificato, quasi sinfonico, ma sempre al servizio dell’emotività delle canzoni.

Gli aneddoti abbondano: si racconta che Harrison fosse spesso perplesso dal volume eccessivo che Spector voleva ottenere, e che le registrazioni fossero talmente affollate da sembrare un concerto continuo.

Ciò nonostante, Harrison riconobbe sempre che quell’approccio diede all’album una “grandezza” che difficilmente avrebbe raggiunto da solo. In alcune interviste successive dichiarò che, se avesse potuto, avrebbe alleggerito alcune produzioni, ma mai negò il contributo decisivo di Spector al carattere dell’opera.

Un impatto da record

Dal punto di vista commerciale, All Things Must Pass fu un trionfo immediato. Il singolo “My Sweet Lord” raggiunse il primo posto in molte nazioni, inclusi Stati Uniti e Regno Unito, diventando uno dei brani più iconici del decennio. L’album — un triplo LP, cosa rara e rischiosa per un debutto solista — scalò rapidamente le classifiche, arrivando al primo posto negli USA e rimanendoci per settimane. Fu il primo album solista di un ex-Beatle a raggiungere tali risultati, un vero record che consolidò Harrison come forza creativa indipendente.

L’impatto culturale fu altrettanto significativo. In un’epoca segnata da tensioni sociali, crolli di certezze e ricerca di nuovi equilibri spirituali, All Things Must Pass offriva un linguaggio diverso: non rivoluzionario come Dylan, non ribelle come Lennon, non romantico come McCartney. Era meditativo, introspettivo, universale. Fu uno dei primi grandi momenti in cui la musica pop occidentale dialogò apertamente con la spiritualità orientale, senza filtri né superficialità.

Molti critici lo definirono immediatamente un capolavoro, altri lo giudicarono “troppo lungo”. Ma negli anni la percezione non fece altro che crescere. L’album influenzò generazioni di cantautori, dalle atmosfere folk-rock alle sonorità dream-pop; ispirò artisti come Jeff Lynne, Tom Petty e più tardi Ben Harper, mostrando come una scrittura intimista potesse convivere con una produzione vasta e complessa.

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