1975, pensieri dall'anno perfetto del rock
09 ottobre 2025 alle ore 12:55, agg. alle 13:46
Il ricordo di un annata, il 1975, che ha consegnato alla storia un panorama rock incredibile e forse irripetibile
I ragazzi del 1975 potevano essere brutti, sporchi ma non così cattivi.
Erano incazzati per le vicende del mondo – l’incubo del Vietnam che finì in quell’aprile, la guerra civile in Libano, i dittatori che rendevano più angusti i confini dell’Europa, almeno finché in Spagna, proprio quell’anno, Francisco Franco non decise di crepare.
In Italia comandava, more solito, la DC, però l’abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni ti consentiva di votare e sperare di cambiare le cose.
Il diritto di famiglia era stato riformato, se avessi voluto viaggiare ti saresti dovuto contentare di un pioneristico Ciao a pedali o ammassarti in una angusta Cinquecento per fare baracca in qualche vineria buttando giù Sangria.
Qui e là spuntavano avveniristiche sale giochi, c’era quel formidabile trastullo elettronico che chiamavano Pong, meglio del flipper, altrimenti si litigava attorno a un biliardo alla bisca.
Intanto qualcuno, senza che tu lo sapessi, elaborava un modo diverso di concepire le comunicazioni: Gates e Allen fondavano la Microsoft, ma sarebbe passato del tempo prima di dimenticare il ticchettio imperioso di una macchina da scrivere.
Si bivaccava sul muretto, a scuola erano tutte assemblee e collettivi, c’era sempre un motivo per mobilitarsi e migliorare questo accidente di pianeta.
Anche con la musica: poteva pure bastare una chitarra acustica a una festa un po’ stordita o sulle dune della spiaggia, ma vuoi mettere quant’era figo unirsi in un gruppo rock? Si sperimentava in cantina, poi di sicuro sarebbe arrivata la consacrazione, il tour almeno in Italia.
Rock, prog, hard, folk, casino pre-punk. Ce n’era, di terreno fertile da scavare. Anche perché quelle riunioni liturgiche a casa dell’amico che aveva comprato il nuovo 33 giri dell’idolo erano sacre e profane allo stesso tempo: si ascoltava il vinile in gruppo, religiosamente in silenzio, l’addetto alla puntina badava a non sfregiare i solchi del long-playing.
Che magari, a partire da quello stesso ’75 in modo piratesco e del tutto legittimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale dell’anno successivo, avresti avventurosamente trasmesso su qualche radio libera, ma libera veramente.
La vertigine di sapersi in onda, anche se la potenza dell’emissione non superava il perimetro dell’isolato. E che album, che canzoni, in quella irripetibile congiunzione astrale in cui il fermento magmatico del rock anni ’60 aveva trovato uno sviluppo creativo che si diramava in mille sentieri percorribili.
Il ’75 è l’anno del mirabile equilibrio tra il prima e il dopo della musica ribelle. Un calendario affollato di capolavori che, a mezzo secolo di distanza, non smettiamo di celebrare, mentre la discografia capitalizza la nostalgia di quell’era attraverso cofanetti, ripubblicazioni speciali, edizioni deluxe.
L’ultimo, proprio in queste ore e a pochi giorni dal concerto celebrativo di Bergamo, è il box con inediti e perle sparse di “Horses”, il folgorante debutto di Patti Smith che aveva segnato lo spartiacque tra rock poeticamente visionario e “fondazione” del punk americano. Ma a sfogliare le uscite di 50 anni fa capisci perché il r’n’r fosse un codice identitario.
Ecco lo Springsteen di “Born to run” che indica la strada per sfuggire dal destino di una vita da perdente; i Queen di “A Night at the Opera” che fondono il glam con la spericolatezza architettonica del suono; il Dylan introspettivo ma dannatamente ispirato di “Blood on the tracks”; quel Bowie strafatto che gira la vite del soul e della disco in “Young americans”; i Led Zeppelin che arano il latifondo di “Physical Graffiti” per innestarvi piante rigogliose; i Pink Floyd e il loro trattato sull’assenza in “Wish you were here”; Jeff Beck e il suo virtuosismo da prestigiatore con la chitarra su “Blow by Blow”; gli Aerosmith che prendono a spallate la porta dell’heavy pop già in “Toys in the attic”; i Black Sabbath che superano le dispute interne concentrandosi sull’elaborazione di “Sabotage”, gli ZZ Top e lo smagato blues-rock sudista di “Fandango” o la luttuosa cupezza esposta da Neil Young in “Tonight’s the night”.
Il 1975 è l’anno in cui l’orologio del rock si ferma in un momento perfetto, e vorresti che quelle lancette non fossero mai ripartite.
Poi pensi che di lì a poco avresti udito la furia dei Sex Pistols, dei Clash o l’allucinazione dei Talking Heads e ti convinci che l’era della prosperità non si sarebbe esaurita. Non subito, almeno.